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Le Olioresine usate nel Restauro

Le olioresine utilizzate nel restauro

Mi è capitato spesso di sentire obiezioni sull’uso delle olioresine che denotano l’ applicazione impropria che ne viene fatta da chi le prova per la prima volta. Per esempio il riscontro di difetti di essicazione, o una filiazione disomogenea. Vorrei quindi descriverne dettagliatamente le metodologie di applicazione. Per far ciò occorre analizzare l’ evoluzione che hanno avuto le vernici nel passaggio dall’ era preindustriale ad oggi, poiché ogni tipo di finitura è strettamente legato ad un tipo di mentalità, ad una visione storica, ad un modo di intendere e di vivere i materiali oltre che al loro uso. Parlo di vernici, non di pitture, chè quest’ultime hanno prerogative e caratteristiche diverse, anche se per taluni versi analoghe, sono, cioè, coprenti.

Breve storia dell’evoluzione delle tecniche

Gli anni intorno al 1850 segnano una svolta storica nella tecnologia del legno. E in quegli anni che l’ industria rivoluziona quei concetti che avevano guidato da sempre la falegnameria. Tali cambiamenti coinvolgono anche altri settori dell’artigianato talora in modo subdolo, talora in modo più evidente. Basti pensare all’invenzione del cemento, che risale a quel periodo, ed a tutto ciò che ne consegue. Le tecniche di costruzione sono state rivoluzionate, addirittura stravolte. La muratura classica (già Plinio il Vecchio ne parla) aveva un interno duro per passare ad un esterno molle; le moderne murature sono esattamente il contrario.

Nel legno è capitata pressappoco la stessa cosa: i classici legni sono stati sostituiti da legni essiccati in forno, stabilizzati, da compensati, truciolati, surrogati del legno… tutti materiali sfibrati o teneri, rivestiti il più delle volte da un film di vernice dura. Un eclatante esempio di questa tecnica costruttiva l’ ho avuto nella mia famiglia negli anni cinquanta.

Era la tipica famiglia borghese che ha vissuto il boom con tutte le sue luci e le sue ombre. Il nuovo improvviso benessere l’ ha portata a sostituire i vecchi mobili decò con moderni prodotti firmati da architetti di grido. La camera da letto era veramente un pezzo singolare, tanto da essere meta turistica di amici e vicinato, non certo per motivi sessuali. Si trattava di mobili dallo stile americaneggiante, costruiti con multistrato, compensato tamburato con la struttura, credo, in pioppo. La singolarità tecnica era data dal rivestimento in pelle d asino. La tinta era di un bianco leggermente cremoso. Ma l’ artigiano, che devo dire dotato di grande maestria, non si era fermato qui: il tutto era protetto da una vernice poliuretanica spessa e lucidissima che dava la sensazione che i mobili fossero rivestiti da un cristallo. Inutile dire che dopo qualche anno tale vernice ha incominciato a cavillare perdendo il suo originale splendore, ed oggi è irrimediabilmente deteriorata. Questo esempio è indicativo anche perché evidenzia il cambiamento di una mentalità che è passata dall’aspirazione di dare al mobile una lunga durata nel tempo, alla mentalità consumistica.

Le vernici filmanti e quelle impregnanti

Il primo sintomo di tale cambiamento lo si è avuto con l’ introduzione e l’ uso della gommalacca che dal 1830 è stata importata massicciamente in tutt’ Europa e tuttora viene usata dai restauratori come se fosse una vernice storica, mentre prima di tale data era pochissimo usata a vantaggio di altre resine tecnicamente più valide e meno costose che venivano, comunque, sempre usate miscelate con oli.
Nella seconda metà dell’ottocento vengono sintetizzati i primi polimeri cellulosici che verranno commercializzati verso la fine del secolo, predecessori delle moderne plastiche, dei poliuretani, degli epossidici… dei componenti base, insomma di tutte le moderne vernici che hanno come prerogativa fondamentale la durezza e la mancanza di elasticità. Tali vernici avrebbero fatto inorridire i falegnami del 700. Basta guardare una persiana moderna, verniciata con un poliuretanico, trasparente o leggermente pigmentato, il cui film tende a scrostarsi, e, nei punti in cui riesce ancora a restare aggrappato al supporto, risulta cromaticamente lattiginoso Una persiana settecentesca sarebbe stata verniciata con ben altro sistema; il concetto di film, nell’ambito delle vernici, era relegato soltanto a certe categorie di manufatti rustici ( ma con pitture traspiranti ed elastiche), alla liuteria ed alla nautica.
Il falegname aveva ben presenti tutti i problemi che potevano essere provocati dagli inevitabili movimenti del legno, dall’ architettura del mobile alla finitura. Basti pensare alle tecniche ed ai materiali che venivano usati quando il legno doveva essere rivestito da una finitura rigida, come per esempio una doratura, o una laccatura. Teniamo presente, oltretutto, le temperature ed il tipo di riscaldamento presenti nelle case antiche, che determinavano notevoli sbalzi di umidità e microclimi molto diversi fra loro anche a distanza di pochi metri.
E facile comprendere come in condizioni simili si preferisse non usare vernici filmanti ma, piuttosto, vernici di tipo impregnante. E sintomatico il fatto che la moderna industria abbia cambiato la terminologia: per vernice fino al secolo scorso si intendeva una soluzione sia filmante che impregnante, trasparente, atta a rivestire con un film più o meno sottile; oggi si tende ad indicare con questo termine una soluzione chiaramente filmante, mentre se la pellicola risulta impercettibilmente sottile si usa il termine “protettivo“.

Le olioresine usate come “protettivi”

I componenti fondamentali di tali “protettivi” sono stati da sempre oli, cere e resine. Ne sono state trovate traccia su suppellettili antiche, egizie, ittite…, tanto che non si ha idea di quale fu il primo popolo ad usarle. Interessante è l’etimologia del termine vernice: deriva dal latino medioevale veronice ( resina odorosa) e questo a sua volta dal greco berenike, città della Cirenaica fondata dalla regina Berenice (si tratta dell’odierna Bengasi). Nella zona a nord di tale città si estraeva la sandracca. Tale resina per tutto il medioevo e parte del rinascimento è stata una delle più usate nella fabbricazione delle vernici.
In quanto alla componente oleosa, sono stati usati svariati oli; verso la fine dell’ottocento se ne usavano almeno una quarantina, ma se si pensa che la loro catalogazione era generica ed imprecisa (sotto lo stesso nome, per esempio, spesso venivano messi oli molto diversi tra di loro), ci si rende conto che il loro numero effettivo era decisamente superiore. Fu soltanto nei primi anni del 900 che in Italia venne costituita la Commissione Tecnica Governativa Colori e Vernici che tentò di riordinare un mercato che fino ad allora era a dir poco caotico. Quello che è certo è che l’ olio per eccellenza è sempre stato considerato l’ olio di lino, come la cera per eccellenza quella d’ api. 

Olioresine e loroo utilizzo 

Ovviamente il concetto di “migliore” è relativo: nell’ambito delle vernici questa relatività è in stretto rapporto con ciò da cui deve essere protetto il legno. Una cera d’ api ha un comportamento di un certo tipo in interni, ed un altro in esterno. E per motivi di questo genere, oltre che estetici, che oli vari, cere e resine venivano mescolati in proporzioni e tipi diversi, così da creare vernici con caratteristiche diverse. A ciò vanno aggiunte le varie modalità di stesura che determinano anch’esse diversità di risultati.

Se si pensa al grande numero di oli usati ed alla varietà di resine, ci rendiamo conto del gran numero e della varietà delle vernici prodotte in epoca storica. Fondamentalmente si trattava di una mescolanza di olio, resina ed un diluente. Le caratteristiche, come si è detto, variavano in base alle proporzione dei componenti e alla loro natura. Va anche detto che, contrariamente alle credenze popolari, difficilmente l’ artigiano si dedicava alla realizzazione delle vernici con le quali dava una protezione ai propri manufatti. Le difficoltà erano troppe; incominciavano da quelle del reperimento delle materie prime, i loro prezzi, la loro qualità discontinua, per arrivare poi a problemi tecnici quali la cottura degli oli, la pirogenazione delle resine, le pratiche necessarie per rendere l’ olio essiccativo, ecc.

Fabbricazione delle olioresine

I passaggi fondamentali della fabbricazione di una classica vernice erano questi:

1. cottura dell’olio:

La cottura determina un inizio di polimerizzazione che poteva essere accentuato con una serie di cotture successive; in questo caso si ottiene uno standolio, cioè un olio più denso, adatto per vernici filmanti che venivano anche chiamata vernici a solvente volatile. Fino ad un certo periodo storico durante la cottura veniva aggiunta una certa quantità di calce che aveva lo scopo di conferire all’olio maggior siccatività. Questa pratica venne abbandonata preferendo l’uso di sali metallici.

2. pirogenazione della resina:

consiste nel portare la resina ad una temperatura leggermente superiore alla sua temperatura di fusione, così da renderla solubile nell’olio, cosa altrimenti impossibile. Si può ricorrere all’escamotage di scioglierla in alcol e poi procedere alla miscelazione, ma in questo modo si ottengono risultati scadenti, perdendosi molte delle qualità della resina.

3. aggiunta dei sali essiccativi.

4. aggiunta del diluente.

La vernice che in assoluto è stata la più diffusa in Europa per vari secoli si chiamava Megylp e veniva prodotta in Olanda. Da varie fonti si desume che fosse composta da olio di lino cotto, elemi e trementina veneta. Era tanto famosa ed usata da diventare sinonimo di vernice, tanto che con tale termine si arrivò ad indicare generiche aggiunte di resine anche in pittura. Addirittura si incontravano quelli che oggi definiremmo taroccamenti, vernici che venivano chiamate con storpiature del nome originale, tipo Megilp, Megilf, Megilph ecc …

I famosi “segreti” che circondano le vernici dei grandi ebanisti non erano altro che piccole modifiche apportate a vernici confezionate da ditte specializzate. Modificare una olioresina come il Megylp è semplice. Per esempio se la si vuole più resistente alle intemperie, basta una piccola aggiunta ( 5% – 10%)di olio di thung ( quello cinese, che una volta veniva anche chiamato olio di legno). I nostri falegnami la usavano come fondo per la cera addizionandovi una piccola quantità di cera d api.

Il mio primo incontro con questa vernice risale ad una quarantina d’ anni fa, nella bottega di un vecchio restauratore umbro. Una bottiglia persa fra tante altre e sotto polvere tanto antica da sembrare ormai incorporata nel vetro, con un etichetta consunta con una scritta vecchio stile in diagonale, quasi illeggibile. Alle mie domande mi venne risposto che si trattava di una vernice fantastica che non veniva più fabbricata, che veniva usata, come già detto, come fondo per la cera, da sola come vernice a finire, e persino, con aggiunta di alcol, per stoppinare, ma oramai anche lui aveva dovuto rassegnarsi ad usare la gommalacca, con i risultati scadenti che sappiamo.

Anche a me era stato insegnato ad usare la gommalacca a pennello, successivamente pagliettata come fondo per la cera, e le parole del vecchio restauratore mi colpirono perché aveva ragione: tale resina ha delle ottime proprietà se stoppinata, ma data a pennello le perde, tanto che molte ditte hanno studiato prodotti sostitutivi, i cosiddetti turapori. Mi dedicai ad una ricerca storica che mi diede vari riscontri, ed a una ricerca di tipo merceologico. Arrivai a scoprire come molte di queste vernici venissero ancora prodotte, ma pubblicizzate senza riferimenti alla loro collocazione storica, così che molti operatori magari le usavano senza sapere cosa effettivamente usavano.

Purtroppo in restauro ligneo si è sempre mosso in sottotono. Da un lato vi è stato un fiorire di botteghe condotte da artigiani che, magari hanno una maestria nella manualità di tutto rispetto, ma che in quanto a cultura del restauro sono estremamente carenti; d’ altro canto, i maestri del restauro sono sempre stati impegnati a recuperare Opere d’ arte, per cui il mobile risulta ben poca cosa.

Sta di fatto che per trovare riscontri sulle olioresine ho dovuto rivolgermi ad altri settori a volte ancor più umili. I liutai, per esempio, usano olioresine, sebbene siano per lo più filmanti. Nella pavimentistica se ne usano ancora. Pensiamo al cotto: quando viene trattato in modo classico si usa una olioresina. Nell’ambito della nautica vi sono ditte che fabbricano ancora vernici olioresinose che, mi si dice, risultano ancora essere le più resistenti in ambiente marino.

E nel corso di queste ricerche, nelle quali ho sistematicamente contattato tutte le ditte produttrici, ho incontrato la Geal, dalla quale ho avuto la massima collaborazione ed assistenza anche a certe mie istanze che molto probabilmente ai suoi tecnici risultavano assurde o incomprensibili.

Penso che certe prerogative di questa Ditta siano dovute alla sua collocazione geografica (nel cuore delle vecchia Toscana), che la lega fortemente a certe istanze culturali e storiche. Mi sono sentito ripetere varie volte dal suo titolare, Dott. Giusti, col suo sanguigno accento toscano, che il suo cuore è legato alla tradizione, ma la mente vola al futuro.
Le loro olioresine, nate per il trattamento del cotto, dei parquet e delle travature, sono molto simili al Megilp, ed applicate sui mobili con le giuste modalità, danno risultati fantastici.

Ciò che mi ha colpito di questa Ditta, in primo luogo, è stata la disponibilità dei suoi tecnici sempre pronti ad analizzare i problemi che vengono loro posti ed a tentare di risolverli con la competenza acquisita anche mediante l’ uso pratico dei prodotti che hanno studiato. A differenza dei contatti che ho avuto con altre ditte, con le quali mi capitava di trovarmi davanti a chimici magari ferratissimi ma avulsi da quelle che erano le problematiche di tipo pratico che si presentano durante il lavoro, in Geal mi trovavo a discutere con chimici che sapevano anche usare gli attrezzi e che, quindi, erano in grado di anticipare gli inconvenienti ed i problemi anche di ordine pratico che avrei incontrato in seguito.

Il primo incontro approfondito con loro lo ebbi quando chiesi un sopralluogo in un cantiere per me molto importante, dove non riuscivo a risolvere tutta una serie di problemi, e con mio grande stupore il chimico da loro inviato mi tolse di mano la monospazzola ed incominciò ad usarla con maestria mostrandomi gli errori che commettevo.
Una tale assistenza è di fondamentale importanza per chi voglia ben operare.
In secondo luogo, i laboratori. Penso che farebbero la felicità di qualunque chimico: modernissimi, realizzati con un impegno economico ed una capacità che denotano un amore per la ricerca e l’ innovazione che, se uniti al rispetto per il passato, non può che dare ottimi risultati.

 
Come usare le olioresine nel restauro

Per capire come le olioresine vanno usate nell’ ambito del restauro, occorre tener presente alcune cose fondamentali. In primo luogo non si tratta di vernici filmanti: se si crea un film dando una sola mano di vernice, si creerà una pellicola superficiale che non permetterà al prodotto sottostante di essiccare poiché tale processo avviene per ossidazione e per polimerizzazione dovuta ai raggi ultravioletti. E nota la pratica dei liutai di far essiccare le loro vernici esponendole ai raggi solari.

Se si vuole ottenere una filiazione del prodotto, bisogna procedere per gradi, con mani successive.
Si tratta, dunque, di vernici di tipo impregnante. L’ olio deve penetrare intimamente nelle fibre del legno; lo consoliderà e non vi potranno essere distacchi anche se si arriverà ad avere una filmazione.
Per ottenere una maggior penetrazione nelle fibre, così da avere un passaggio graduale di durezza finale del legno, conviene iniziare l’ impregnazione diluendo il prodotto con un 50% di diluente. Si può usare il solvente consigliato dalla ditta produttrice a base di limonene, che ha il vantaggio di accelerare l’ essicazione, oppure dell’ acquaragia. Bisogna dire che, tutto sommato, il solvente a base di agrumi è meno tossico dell’acquaragia.

Appena stesa la vernice, si potranno notare zone di maggiore assorbenza ed altre di minore. Si tratterà dunque di omogeneizzare la porosità, così da ottenere una superficie uniforme. Dopo pochi minuti si passerà una pennellessa pulita su tutta la superficie, così da ridistribuire il prodotto, asportarlo dalle parti che assorbono meno, a vantaggio delle altre.

Vi sono legni che assorbono di più, altri meno, indipendentemente dalla loro durezza. Il noce, per esempio, assorbe molto di più del pino, ed il pino meno del larice. I legni moderni, poi, se essiccati in forno, hanno grande potere di assorbimento data la rottura delle fibre e la conseguente riapertura dei pori causata dal repentino traumatico riscaldamento che hanno dovuto subire.
Dopo circa un ora si può procedere ad una pulitura con uno straccio, in modo da eliminare ogni eccesso di vernice. Effettuata questa operazione, si tratta di attendere che il diluente sia evaporato e che la vernice incominci il suo processo di catalizzazione; basteranno dalle dodici alle ventiquattro ore, dopodiché si potrà ripetere l’operazione con le stesse modalità. A questo punto entrano in gioco scelte personali, dovute alla sensibilità ed al gusto dell’operatore, all’effetto finale che si vuole ottenere, al tipo di legno ed allo stile del mobile, nonché alla finitura finale che andrà applicata.
Fondamentalmente i tipi di finitura che si possono ottenere sono tre:

1. una lucidatura a cera, che a sua volta può avere caratteristiche diverse, da un aspetto serico e lucidissimo ad una più adatta a mobili rustici.
2. una lucidatura con una resina: gommalacca, sandracca, benzoino …
3. una lucidatura con lo stesso prodotto iniziale.

La pratica dell’uso della gommalacca introdotta nella prima metà del diciannovesimo secolo, è stata innovativa soltanto a livello di materiale, ma non di tecnica, ed ha avuto una grande diffusione soltanto perché, essendo tale resina sciolta in alcol, essicca velocemente abbreviando i tempi tecnici di lavorazione. Le olioresine venivano date a pennello, magari con l’ aggiunta di una piccola quantità di cera e successivamente pagliettate. In questo modo si otteneva una superficie omogenea adatta a ricevere l’ inceratura, e la cera stessa sciolta nella vernice serviva egregiamente da aggancio.
La pagliettatura eseguita il giorno dopo la stesura della vernice, cioè quando il diluente ha completato la sua evaporazione ma la vernice non è ancora completamente secca, avrà il risultato di eliminare ogni eccedenza e chiudere parzialmente i pori del legno creando una giusta traspirazione che servirà al legno per sopportare quelle alterazioni atmosferiche di umidità e di temperatura a cui inevitabilmente verrà sottoposto. E l’ inizio di un processo di patinatura.
Sopra una preparazione del genere è possibile intervenire con una stoppinatura con gommalacca o con qualsiasi altra resina. Consiglierei anche di sostituire l’ olio paglierino che si usa per aumentare la scorrevolezza del tampone con l’ olioresina stessa, poiché i suoi componenti renderanno più resistente e durevole la lucidatura.

Si noterà che già dalla prima mano di preparazione il legno avrà acquistato doti di idrorepellenza che andranno via via crescendo con le successive applicazioni. Essendo tale vernice di tipo impregnante, la pagliettatura non tenderà a sbiancarla, come avviene per la gommalacca che crea un film cristallino e molto secco che viene inciso dalla paglietta subendo una sbiancatura dovuta ad una miriade di microfratture. Questa vernice continuerà a mantenere la sua tinta, acquistando una superficie sempre più liscia e brillante man mano che verranno stese mani seguite da pagliettatura sempre più fine ed accurata. In questo modo è possibile raggiungere un grado di lucentezza pari a quello della gommalacca, ma più serico, con tinte più piacevoli data la sua maggiore trasparenza dovuta anche al fatto che il film così ottenuto è molto più sottile di quello dato dalla stoppinatura a gommalacca.

Occorre ricordare che più il film è spesso, più la luce che lo attraversa subirà fenomeni di rifrazione che sporcheranno le tinte e toglieranno nitidezza all’immagine.

Varianti sulla finitura

Un dato che mi ha sempre affascinato in questo tipo di verniciatura è che si presta ad un infinito numero di varianti personalizzate. Si può addizionare gradatamente della cera, o delle resine sciolte in alcol (non è il massimo, ma si ottengono risultati a volte inaspettati). Insomma, il lavoro può essere facilmente personalizzato. E da questi procedimenti che sono nate le leggende sui “segreti degli ebanisti”. Ogni artigiano prendendo dimestichezza con le olioresine acquisterà la propria tecnica dovuta al gusto personale, alla propria cultura, alle proprie attitudini.

Effetto disinfestante

Altra caratteristica da non sottovalutare è l’ aspetto disinfestazione. Per anni ho assistito alle lamentele a volte drammatiche di colleghi impegnati in una quasi sempre inutile lotta contro tarli e parassiti vari condotta con disinfestanti e biocidi, veleni il più delle volte cancerogeni e dannosi per la salute umana, o con costosissimi sistemi tipo camere a gas e, ultimamente, addirittura con l’orripilante sistema delle microonde.
Io non ho pressoché mai avuto problemi del genere, e non riuscivo a capirne il motivo. Facevo in modo che il legno potesse vivere in un ambiente a lui congeniale, il che significa un ambiente sano anche per l’uomo, ma ciò non bastava a spiegare perché i mobili che uscivano dalla mia bottega fossero pressoché immuni da aggressioni di questo tipo, finchè non mi resi conto che ciò era da ascrivere soprattutto all’uso delle olioresine.
I tarli non amano l’ olio di lino che, oltretutto, è un ottimo consolidante e, quindi, rende il legno ostico a quei poveri animaletti. La sua penetrazione nelle fibre è profonda e raggiunge spesso anche le larve che vengono cristallizzate nel legno, e quelle che non vengono raggiunte, quando si dischiuderanno non avranno la forza di macinare un materiale troppo duro e morranno. Quando mi capitano legni con infestazioni molto avanzate, effettuo impregnazioni ripetute ed abbondanti. Si nota immediatamente una fuga in massa, o meglio, un tentativo di fuga, poiché vi è una moria imponente.
Dobbiamo ricordare che i nostri antenati erano molto più rispettosi di noi non solo dell’ambiente, ma anche della loro salute, e millenni di civiltà avevano insegnato loro a sfruttare proficuamente ciò che la natura ci offre.
Ovviamente l’applicazione di tali vernici si adatta ad usi molteplici; per esempio la protezione di travi e soffitti lignei. Essendo possibile darle a spruzzo (con irroratori da giardino), i tempi di lavorazione si abbassano notevolmente rispetto alla classica verniciatura a pennello. Non dimentichiamo poi la protezione del ferro (l olio di lino era la base della vernice al minio) e della pietra.

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