Il concetto di Originale
Il concetto di originale nella cultura del restauro storico e artistico
Premessa
Lo scopo essenziale di questa relazione è quello di illustrare le linee principali e soprattutto il senso della moderna metodologia del restauro delle opere tradizionalmente intese come opere d’arte (quelle, per intenderci, non riproducibili), al fine di poter verificare la loro funzionalità operativa anche nel campo della conservazione e del restauro del film, pur ovviamente nelle dovute e chiare differenze.
Ma saranno trattate anche alcune problematiche relative ad opere d arte che, se pure prodotte nel passato, ben prima dell’invenzione della fotografia e del cinema, per la loro serialità propongono determinazioni e aspetti ancora più vicini alle caratteristiche del film e dunque all’individuazione di principi e di metodi utili per un orientamento anche nel campo del restauro cinematografico.
Ci si riferirà in principal modo ad alcuni esempi di sculture realizzate in più esemplari per desunzione da un unico modello nell’ambito di una stessa bottega e di uno stesso ciclo produttivo e alla realizzazione di incisioni diffuse per mezzo della stampa.
Dai rifacimenti e integrazioni ai primi concetti di Restauro
Cominciamo dunque con l’individuare un dato fondamentale e troppo spesso poco ricordato: il restauro delle opere d arte figurative è una esigenza che nasce soltanto in epoca moderna. Se ne può perfino indicare il momento : il XVIII secolo, soprattutto nella seconda metà.
Prima di questa epoca il restauro come attività autonoma era una disciplina sconosciuta, perché i danni che si verificavano su un opera d arte erano semplicemente eliminati sulla base di alcuni interventi ben chiari : il rifacimento delle parti danneggiate e il completamento di quelle mancanti. Dunque non esisteva la figura del restauratore con uno specifico corredo di nozioni o di possibilità tecniche, ma semplicemente quella dell’artista che interveniva su un opera fatta da altri.
La prassi dunque dei rifacimenti, delle reintegrazioni, che non si preoccupavano neppure di imitare le caratteristiche stilistiche, formali o anche iconografiche dell’opera, era quella prevalente, possiamo ben dirlo, fino a tutto il Settecento, quando comincia invece a manifestarsi una individuazione ben chiara dell’autonomia del restauro rispetto alla pittura e alla scultura.
Nascono di conseguenza tecniche proprie al campo del restauro. Tanto per citarne alcune, lo stacco e lo strappo di affreschi, la foderatura dei dipinti su tela, il trasporto della pellicola pittorica da un supporto su tavola a uno su tela. Inizia anche in quest’epoca il dibattito intorno alla divaricazione che ancora oggi esiste tra quanti negano l’opportunità di qualsiasi manipolazione dell’opera d arte, indicando nel controllo dell’ambiente l’aspetto principale e quasi unico della conservazione delle testimonianze antiche, e quanti invece ritengono che il restauro “rispettoso” delle singole opere debba essere il dato e il fatto più significativo e meglio rivelatore della qualità e del significato degli oggetti artistici nella loro stratificazione estetica e storica.
È da notare che la problematica del restauro sorge nella stessa realtà culturale, il razionalismo settecentesco, che vide affermarsi anche l’estetica, intesa come disciplina filosofica che scopre il senso e la realtà dell’autonomia dell’arte.
Paradossalmente, avviene di conseguenza che nel momento in cui nasce l’estetica come disciplina separata, si afferma anche la considerazione dell’intoccabilità delle opere d arte, soprattutto di quelle ormai prive delle funzioni d uso, dismettendo così tutta una secolare pratica di manutenzione e di piccoli interventi riparativi che invece erano stati costante prassi dell’uso e dell’esistenza delle opere d arte, legate ad una funzionalità ormai lontana.
Nell’Ottocento si approfondisce, e diviene più contradittoria, questa esigenza di una considerazione preminente o assoluta dei valori estetici, sulla base di una presunzione per noi oggi intollerabile : quella di poter ripercorrere, dinanzi a un opera danneggiata o modificata nel corso della sua storia, la possibilità di un ripristino delle condizioni originarie, cancellando d un colpo tutto ciò che le epoche successive hanno prodotto su di essa e quindi presupponendo l’utilità e la possibilità di un rifacimento, questa volta non più stilisticamente autonomo, bensì imitando, al limite del falso, le caratteristiche formali dell’opera lacunosa o dell’opera comunque danneggiata. Sono i restauri alla Violet Le Duc, per intenderci.
Si può a questo punto affermare che la tradizione del restauro, d origine piuttosto recente, ha sempre oscillato tra rifacimenti e ripristini, con una metodologia empirica e occasionale, senza individuare quello che è il senso più proprio del rapporto di studio, di ricerca e di conoscenza con l’opera d arte che ogni intervento di restauro impone.
Moderna Concezione di Restauro
Diciamo pure che qualcosa è cambiato da allora, perché qualcosa di nuovo si è affermato nel campo teorico del restauro. La moderna pratica del restauro delle opere d arte e dei beni culturali in generale si afferma nel momento in cui l’eredità della tradizione artigianale, diffusa e radicata per esperienze anche remote nel tempo, si sottopone a controlli più specifici e attenti per liberarsi dell’empirismo metodologico e dalla ricorrente tentazione di confondere il concetto e l’intervento di restauro con rifacimenti più o meno parziali e con illeciti e fuorvianti ripristini. Un più stretto legame dunque tra restauro, metodologia critica della storia dell’arte e conoscenza scientifica e tecnica dei principi costitutivi dei materiali delle opere d arte e delle loro alterazioni nel tempo, diviene fondamento stesso di ogni intervento conservativo e di restauro.
Il dato più importante che credo debba essere sottolineato qui, è la valutazione del rapporto esistente tra il restauro e la consapevolezza critica che si ha dell’opera d arte. Rispetto della consistenza materiale del manufatto artistico, riconoscibilità e reversibilità dell’intervento sono i principi basilari della moderna teoria del restauro, quali sono stati appunto codificati nella maniera più sistematica dalla riflessione di Brandi e quali si ritrovano, ad esempio, nell’esperienza stessa, ormai quarantennale, dell’Istituto Centrale del Restauro, principi ormai diventati patrimonio comune di quanti operano nel campo della conservazione e del restauro delle opere d arte. Al punto che questi principi stessi sono stati codificati in una maniera abbastanza solenne in una “carta del restauro”, un documento ufficiale che individua per tutte le classi di beni i principi, i metodi, i materiali da usare, per quanto riguarda gli interventi conservativi su opere architettoniche, pittoriche o qualunque altra arte figurativa.
Si è accennato ai criteri guida che nel campo dei manufatti tradizionalmente considerati come artistici servono ad individuare una coretta metodologia di intervento.
Criteri guida
Primo fra tutti il rispetto della autenticità dell’opera, in quanto essa appartiene ad una realtà significativa dal punto di vista dell’espressione storica e anche dal punto di vista dell’esperienza estetica. Questa polarità – per dirla con Brandi – dell’oggetto artistico, realtà autonomamente compiuta e codificata dal punto di vista estetico, ma nello stesso tempo espressione e documento di una particolare realtà della storia, è la condizione ineliminabile di qualsiasi oggetto o manufatto artistico. Questa condizione deve essere intesa nei suoi valori più giusti e rispettata nel suo significato e nella sua realtà più vera.
Un primo, ovvio aspetto coglie il nesso con la temporalità storica dell’epoca di produzione: ogni opera, ogni manufatto è pur sempre documento dell’occasione in cui fu realizzato.
Però detto questo non esauriamo affatto la problematica storica dell’opera, perché sono da valutare anche le fondamentali sovrapposizione temporali che accompagnano inevitabilmente l’ambito di esistenza dell’oggetto artistico.
Per esempio, il tempo come durata del processo fattuale o creativo, se vogliamo usare una parola ormai dismessa, di realizzazione dell’opera d arte.
Faccio un solo esempio : i quadri di S.Luigi dei Francesi di Caravaggio. Durante il restauro, compiuto qualche anno fa, fu scoperto che la superficie visibile del dipinto in realtà nascondeva strati sottostanti che sono stati rilevati attraverso un indagine radiografica. Si vide che esistevano più strati successivi di elaborazione con vari pentimenti e sovrapposizioni, fino ad arrivare a quella che era la versione definitiva voluta dal Caravaggio. La possibilità tecnicamente realizzabile – e casi non ne sono mancati nella storia del restauro – di riportare in luce quello che era un pensiero iniziale poi modificato dall’autore, sarebbe stato appunto il non rispetto della considerazione del tempo come durata del processo fattuale della realizzazione dell’opera. Il restauro deve intervenire soltanto a partire dal momento in cui l’opera è compiuta e definita e non entrare dentro le varie fasi del processo creativo che l’ha prodotta. È quanto ad esempio è avvenuto per la versione cosidetta integrale del Ludwig di Visconti.
Ma ancora un altro aspetto fondamentale della storicità dell’opera è quello del tempo che separa la creazione e la sua conclusione dal momento in cui è realizzato l’intervento di restauro. L opera, durante la sua esistenza, ha chiaramente subito delle modifiche. Il fatto stesso di essere un oggetto materiale ha comportato in modo inevitabile che esso si trasformasse, e dunque si alterasse, in alcune delle sue caratteristiche fisiche. Inoltre le modificazioni delle sue fonzioni d uso, la possibilità di nuove diverse interretazioni, l’inserimento in contesti diversi dall’originario e quanti altri fattori derivano dall’evolversi nel corso dei secoli delle condizioni strutturali e culturali della società, possono avere determinato mutamenti sensibili, a volte sostanziali, a volte addirittura dei tradimenti del senso originario dell’opera. Quindi il tempo storico aggiunto, quello cioè che separa l’opera dal suo compimento al momento in cui è analizzata e valutata in previsione di un suo restauro, è anch’esso un punto di vista inevitabile e fondamentale nell’ambito della metodologia del restauro.
Occorre infine essere consapevoli che la coscienza di un momento storico e culturale, e dunque le domande e le interpretazioni proiettate sull’oggetto, dipenderanno in larga misura dalla situazione storico-culturale di chi riguarda l’oggetto, al punto da poter far trascurare anche aspetti essenziali ed evidenti, che però non afferiscono all’attualità del momento di chi interpreta. Da queste indicazioni derivano conseguenze ben precise. Il rispetto dell’autenticità dell’opera non può non comportare anche la valutazione della sua molteplice e stratificata storicità. Bisogna rivolgere una attenzione massima al contesto in cui l’opera si è tramandata, all’autentica lezione del suo testo nella misura in cui è recuperabile, allo stato reale di conservazione in cui è pervenuta. Ne consegue che le condizioni minime di un restauro debbono consentire il riconoscimento di ogni intervento conservativo e di integrazione che si realizzi sull’opera, differenziandolo dall’originale e preservando anche la reversibilità dell’intervento stesso.
Considerazioni sul restauro di opere seriali
Questa definizione che ho data, è ovvio e l’ho detto in premessa, si riferisce alla mia esperienza di esperto di restauro di opere figurative. Però nel momento in cui noi ci poniamo con un raggio di visuale più allargato rispetto a quella che è la considerazione dell’opera d arte figurativa tradizionale generalmente non riproducibile, ci accorgiamo che esistono alcune tipologie di opere d arte del passato o comunque di opere d interesse culturale che saranno ora considerate per gli evidentissimi legami che il loro restauro ha nei confronti della tematica nascente del restauro del film.
Esiste nella tradizione figurativa una serie di prodotti seriali, riproducibili, così come i film.
Sono facilissimi da individuare, per esempio, le incisioni, le stampe, i libri. Ma non soltanto nell’ambito di tutto ciò che è legato al processo tecnico di riproduzione attraverso la stampa. Vi sono opere d arte tradizionalissime che sono riproducibili, per esempio le sculture in bronzo, poiché, partendo da un modello che è unico, si possono trarre tanti calchi e fare tante fusioni di uno stesso modello. Non se ne fa spesso più di un esemplare perché fondere una statua in bronzo è sicuramente molto complesso e costoso. Ma esistono casi diversi perfino nell’ambito della tradizione culturalmente più elevata che l’Italia, e penso l’Europa, abbia prodotto negli ultimi secoli, cioè la civiltà del Rinascimento, quando accanto ai grandi capolavori, unici e irriproducibili, di Michelangelo, Raffaello, Dürer, troviamo una produzione considerata minore che affida la sua consistenza, la sua caratterizzazione ad una riproducibilità seriale, perfino nella scultura.
Ho avuto occasione, qualche anno fa, quando lavoravo ancora presso l’Istituto Centrale del Restauro, di intervenire su un inconsueto manufatto, un rilievo, meglio ancora un alto rilievo, opera di Jacopo Sansovino, importantissimo, fondamentale scultore e architetto attivo nella prima metà del Cinquecento prima a Roma poi a Venezia. Si tratta di un rilievo di cartapesta, raffigurante la Madonna col Bambino, e caratteristica di questo rilievo è che esso non era l’unico esemplare sopravvissuto, pur nella fragilità del materiale, ma che, oltre all’esemplare di cui dovevo occuparmi, conservato adesso nel Museo del Cenedese a Vittorio Veneto, erano sicuramente riconoscibili almeno cinque repliche superstiti, conservate adesso in diversi musei, al Bargello a Firenze, al Museo Correr a Venezia, al Kimbell’Art Museum di Fort Worth, alla National Gallery di Washington.
Nel momento in cui mi si pose il problema del restauro, il primo dato inevitabile fu quello di capire il rapporto che esisteva tra l’esemplare che era nei laboratori dell’Istituto rispetto agli altri esistenti. Erano tutte repliche diverse, soprattutto per quello che caratterizzava la cromia di quest’opera.
Un rilievo mostrava un fondo azzuro con stelle d oro, un altro aveva un fondo totalmente azzuro senza stelle, un altro ancora aveva un fondo rosa, un altro infine aveva un fondo architettonicamente alluso ma non chiaramente definito. Cambiavano anche alcune definizioni del panneggio della Madonna e del Bambino : a volte la veste era azzura con bordature rosse, altre volte esibiva colori totalmente diversi. Questa diversità delle copie, tutte comunque riconducibili ad un unica matrice di Sansovino, andava indagata, studiata, capita.
È il risultato di una volontà originaria di diversificazione delle copie, oppure le vicende posteriori di ciascuno di questi esemplari hanno portato a delle modifice e a dei mutamenti nell’aspetto dell’opera? La risposta che seppi dare a questo interrogativo non fu univoca perché purtroppo, a parte la difficoltà di vedere e studiare gli esemplari in America, le informazioni che attraverso gi interventi di restauro effettuati recentemente si ricavavano erano minime. Chi aveva eseguito gli interventi di pulitura o di restauro degli altri esemplari non era minimamente preoccupato di indagare la sostanza, la caratteristica dei materiali, per capire se le modifiche esistenti erano dovute a interventi successivi, oppure a una originalità in partenza diversa. Però attraverso gli esemplari più abbordabili, perché più vicini, soprattutto quelli di Venezia e di Firenze, a delle conclusioni sono arrivato.
L’ esemplare che stava sotto la mia cura era caratterizzato dall’uso di un materiale poverissimo, la cartapesta, che però presumeva, nella colorazione e nella definizione dell’aspetto, l’imitazione di un materiale nobile, cioè il marmo, per cui appariva monocromo. Si trattava di un rilievo in cartapesta che imitava un rilievo in marmo, e quindi la definizione cromatica del rilievo era quella del marmo. Mentre invece negli altri casi, sotto le vistosissime couches pitturali rosse, azzure e verdi, non c era assolutamente nulla ; non sono stati trovati strati più antichi ridipinti, per cui fosse possibile pensare ad una diversità dell’aspetto originale e, sotto lo strato di colore ora visibile, non c era null’altro che la preparazione. A questo punto, la conclusione a cui sono arrivato è stata molto semplice : la differenziazione, all’interno di una stessa matrice plastica, dell’aspetto cromatico dei rilievi del Sansovino, era voluta fin dall’inizio, probabilmente legata anche alle esigenze della committenza. Esisteva la possibilità, all’interno della bottega del Sansovino, di avere un prototipo da cui si ricavavano dei calchi, che poi venivano definiti in cartapesta, essendo colorati secondo il gusto e la volontà del committente. Quindi è chiaro che, nel mio caso, il problema era quello di andare a fondo sulle caratteristiche di quell’esemplare e non di servirmi per il mio intervento del modello degli altri, perché, pur essendo uguali, non lo erano affatto, cioè tutti erano diversificati l’uno rispetto all’altro o per la diversa scelta di colore iniziale e per successive modifiche, da considerare comunque con attenzione prima di rimuovere eventualmente la strato più superficiale.
Un altro esempio, che deriva dalla mia esperienza più vicina di responsabile dell’Istituto Nazionale per la Grafica, riguarda un caso davvero incredibile per l’ analogia che presenta con la problematica del film, ed è una enorme xilografia di Albrecht Dürer.
In realtà sbaglio dicendo “una enorme xilografia”, perché si tratta più di incisioni xilografiche riunite assieme. Intendo riferirmi all’Arco Trionfale di Massimiliano I d’ Asburgo, il quale, in clima rinascimentale, soffriva molto all’idea di non poter fare passeggiate lungo il Foro di Augusto, o l’ Arco di Tito, oppure quello di Costantino, e commissionò la realizzazione, con i nuovi procedimenti della stampa xilografica, di un Arco in carta che si portava sempre appresso, nelle spedizioni, nei suoi viaggi, nelle sue battaglie, e che faceva montare in occasione di celebrazioni o di altri eventi festosi, a dare il senso della continuità tra la sua legittima capacità di impersonare il ruolo di imperatore d Occidente rispetto all’eredità dell’Impero Romano.
Quindi l’ Arco di Albrecht Dürer svolge una funzione politica, oltre che una funzione spettacolare. Ma un’altra analogia con il film abbastanza significativa dipende dal fatto che io ho parlato di un arco di Albrecht Dürer in realtà impropriamente, perché se vediamo i documenti coevi, ci accorgiamo di alcune cose abbastanza curiose.Dire che l’ arco fu inciso da Dürer è un approssimazione, perché dai contratti si desume che il programma iconografico, diciamo la “sceneggiatura”, fu opera di Jhoannes Stabius, filosofo e astronomo alla corte di Massimiliano I d Asburgo, l’architettura dell’arco fu disegnata da un architetto, Jörg Kölderer, i disegni preparatori furono realizzati in parte da Albrecht Dürer, aiutato però dalla bottega, e da altri artisti che lavoravano presso di lui ; tra gli altri collaborarono anche artisti di grandissima importanza, per esempio Albrecht Altdorfer.
Poi ancora Dürer dette sì i disegni preparatori, assieme agli altri artisti della sua bottega, ma chi traspose il disegno preparatorio sulle matrici lignee fu, con numerosi collaboratori, un intagliatore-stampatore, cioè Hieronymus Andreae. È facile osservare come la collettività di definizione e realizzazione del programma già mette in crisi il problema della ricerca di che cosa è l’originale, come capacità o possibilità di far corrispondere a una intenzionalità creatrice di un unico artista l’esito dell’opera, nel senso romantico di cui ancora manteniamo l’eredità. Come accade appunto nel film. Ma la cosa curiosa è un’altra : questo Arco Trionfale, in matrici xilografiche stampate su carta, una volta scomposto è formato da 192 blocchi xilografici. Ogni blocco xilografico di solito ha la grandezza di un foglio di carta medio. Il tutto sviluppa una misura, nell’arco nel suo complesso, di tre metri e mezzo per tre metri circa. Questo Arco Trionfale è stato naturalmente ricostruito, studiato, si è anche cercato di capire che fine hanno fatto le matrici dopo l’edizione a stampa iniziale che fu quella del 1518, voluta da Massimiliano I d Asburgo. Si conosce di quest’arco una seconda ristampa, a pochi anni dalla prima, del 1526-1528, dopodiché se ne ebbe un’altra nel 1559. Ma non si tratta di semplici ristampe : ogni volta che veniva ristampato, esso era modificato. Per esempio : era morto Massimiliano d Asburgo e il nuovo imperatore era Carlo V. Si decide nell’edizione del 1559 di sostituire un pannello con la celebrazione della battaglia di Pavia e Carlo V fa disegnare questa battaglia a integrazione e a sostituzione di un pannello voluto dal suo predecessore. Era un opera d arte modificata nella sua funzionalità e nel suo aspetto a seconda delle circostanze in cui veniva riprodotta. Se ne conosce una nuova edizione nel 1799, dopo un secolo e mezzo.
Senonché a quel punto alcune matrici si erano perse : ne mancano 21. Ebbene, chi curò questa nuova edizione, il grande storico dell’incisione A.Bartsch, dagli esemplari a stampa che ritrovò sparsi, fece fare delle copie non più xilografiche, bensì delle copie ad acquaforte, a integrazione delle parti mancanti. Nel 1885-1886 si fece una nuova ristampa, questa volta usando procedimenti fotomeccanici. Credo che le analogie siano talmente evidenti e chiare con quello che può accadere della copia o delle copie di un film, che non è neppure opprtuno segnalarle, evidenziarle o enfatizzarle.
Il fatto è questo, molto semplice : nell’occasione di una mostra che ho curato presso l’ Istituto in cui io lavoravo, avevamo un esemplare di quest’Arco scomposto nei suoi elementi costitutivi, cioè in 36 fogli ; non era completo e non è completo. Nel senso che, per esempio,manca la grande iscrizione sulla base, e dei fogli figurati ne mancano almeno tre o quattro. Ricercando nei fondi delle nostre collezioni di grafica, abbiamo trovato, anch’essa non completa, un edizione fotoincisa dell’Arco. Nel momento in cui dunque fu necessario rimontarlo, si utilizzò l’edizione più antica che avevamo incompleta, ma per le parti mancanti si utilizzarono le parti fotoincise, in modo da ridare il senso della completezza e della continuità. In quel caso è evidente che il dato della integrazione con copie posteriori, non coeve cioè alla gran parte dell’originale presentato, o comunque di quell’originale particolare, nasceva da una esigenza di completezza e di documentazione. Peraltro poi la diversificazione della parte fotoincisa rispetto alla parte invece realmente realizzata con tecnica xilografica era talmente evidente che chiunque si accorgeva di quali erano le parti più antiche e le parti più moderne. E questo ha consentito un discorso corretto di definizione, di integrazione, di studio, di non falsificazione, di quello che è un dato figurativo, insolito, importante, quale è appunto presente nell’opera di Dürer, o comunque dell’équipe da lui coordinata nell’ambito della realizzazione di questo complesso incisorio.
Ecco dunque, cercando di raccogliere le fila conclusive del mio discorso, che il problema della originalità deve a mio giudizio essere rivisto sulla base della ricerca e del riconoscimento della autenticità. Quale può essere la differenza e la utilità di ricorrere al discorso dell’autenticità rispetto all’originalità? L autenticità è un termine più complessivo, che comprende l’originarietà e l’originalità, ma comprende anche il senso della storicità dell’opera così come lungo il tempo si è evoluto, si è modificato. Il riferimento all’originale non va mai perduto, rispetto al senso dell’autenticità, e deve essere contestuale nella valutazione.
Nel campo delle arti figurative, della pittura, per esempio, una stessa immagine può avere la qualifica di originale, copia d autore, copia di bottega, copia di altro artista, replica d autore, replica di bottega, replica di altro artista, replica fedele, replica con varianti. Nell’ambito invece degli studi sull’incisione, fermo restando che ogni copia è un originale, si rivela di fondamentale importanza la distinzione tra gli stati che possono diversificare i vari fogli incisi, distinguendoli dalle pure e semplici ristampe. Vi è tutta una casistica ormai codificata nel campo della critica e della storia dell’arte che, secondo me, sarebbe utile immettere nel discorso della critica cinematografica, soprattutto laddove il discorso critico sul film presuppone l’opportunità, la necessità di un intervento di ricostituzione di un testo perduto, smembrato, frammentario, come a volte appunto accade nell’ambito della nostra disciplina.
Ogni copia consapevolmente modificata è, a suo modo, un originale. È sicuramente autentica perché è testimone di una intenzione o di una situazione.
La capacità di articolare meglio il discorso sull’originalità attraverso appunto queste graduazioni e queste specificazioni ulteriori, è un tributo sicuramente essenziale e necessario per la migliore comprensione del problema e dunque per la possibilità di dare risposte più corrette al problema del restauro del film. Anche quella che è la definizione filologica dell’originale dovrebbe estendersi a quella che è la definizione filologica dell’autentico, nel senso che ci può essere qualcosa che non è documentatamente riferibile alla volontà ordinatrice del regista o di chiunque altro si voglia considerare l’autore del film, ma che può comunque anche legittimamente essere accettato e in quanto tale rispettato anche nella sua diversità rispetto all’originale. Per esempio, se la diffusione dei prodotti cinematografici americani negli anni Venti e Trenta in Europa e in Unione Sovietica comprendeva copie diverse rispetto alla edizione iniziale realizzatasi in America, abbiamo il dovere di capire in che cosa consiste la diversità della copia che circolava in Unione Sovietica, anche per capire che influenza quella copia e non l’esemplare originale possa avere avuto per lo sviluppo del cinema sovietico. La relativizzazione storica delle copie è fondamentalmente da acquisire come un dato della filologia di un film. Non è mai casuale che un opera sia diversa rispetto all’originale : occorre indagarla nelle ragioni della sua diversità, nell’importanza che, anche se diversamente strutturata, può avere avuto, In quanto tale anche la copia diversa dall’originale ha un senso, una legittimazione, un dovere di esistere in quanto tale, appunto perché la filologia deve estendersi alla filologia dell’autentico, cioè quella che comprende anche il senso della storicità del prodotto e dei modi della sua diffusione.
Credo di poter concludere a questo punto il mio discorso con un invito. Purtroppo il mio amore per il cinema è limitato dalla disponibilità di tempo per occuparmene. Non sono dunque del tutto aggiornato sulla produzione critica relativa al problema del restauro del film. Un esigenza però è da affermare con forza, utile per me, ma credo anche in generale : occorre molto lavorare sulla capacità non soltanto di fare degli ottimi restauri di film, ma anche di documentarli. Occorre dare sempre e comunque, per ogni copia “restaurata” di un film, tutto il senso dei materiali usati, della natura di questi materiali, del criterio che si è scelto, e quindi dell’individuazione della possibilità di una comprensione più estesa, più evidente e più vasta del problema.
Credo che la qualità del restauro del film potrà avanzare contemporaneamente alla capacità di ricerca filologica complessiva e anche alla capacità di documentarne il senso, l’importanza e il valore.