Il Manoscritto

Il Manoscritto Medievale: I Materiali

Fonte: per le Referenze sugli autori e Glossario del Manuale, vedi Appendice

La pergamena è un materiale ottenuto attraverso la lavorazione della pelle degli animali. Il processo che nel medioevo trasformava la pelliccia di un animale in un materiale bianco e pulito pronto per essere utilizzato come supporto per scrivere un manoscritto era affidato ad uno specialista

la Pergamena 

La pergamena è un materiale ottenuto attraverso la lavorazione della pelle degli animali. Il processo che nel medioevo trasformava la pelliccia di un animale in un materiale bianco e pulito pronto per essere utilizzato come supporto per scrivere un manoscritto era affidato ad uno specialista, il percamenarius, e cioè il produttore di pergamena. Nel Tardo Medioevo, i produttori di pergamena avevano una posizione affermata fra gli artigiani ed i commercianti di ogni città. 

Il Manoscritto Medioevale
Un monaco ispeziona un foglio di pergamena che sta per acquistare da un rivenditore come rappresentato in una lettera iniziale di un manoscritto tedesco del XIII secolo. In secondo piano, si possono notare la mezzaluna ed il telaio di legno su cui è stesa la pelle di proprietà dell’artigiano.

Nell’uso comune, i termini pergamena e vello sono intercambiabili. In dettaglio, però, la parola pergamena, di solito pergamenum nel Latino medievale, deriva dal nome della città di Pergamo il cui re Eumenes, secondo quanto detto da Plinio, avrebbe inventato tale materiale nel II secolo a.C. durante un embargo commerciale sul papiro.  Ancora, il termine vellum, che ha la medesima radice della parola vitellum, ovvero vitello o vacca in Latino, riscontrabile anche nel Francese veau, indica esclusivamente il materiale per scrivere ricavato dalla pelle di vacca.

Tuttavia, senza uno studio microscopico e dermatologico è praticamente impossibile discernere la provenienza specifica di una pelle già trattata.

La preparazione della pergamena è un processo lento e complicato. Gli antichi manuali artigianali sottolineano come la scelta di una buona pelle sia cruciale. Durante il Medioevo, infatti, gli animali domestici soffrivano di diverse malattie punture di insetti che avrebbero potuto lasciare tracce indelebili sulla pelle dell’animale una volta scuoiato.
 Inoltre, il lavoratore di pergamena che cercava nel macello le eventuali pelli a disposizione, doveva anche tener conto del colore originario del mantello dato che questo si riflette, in seguito, sulla superficie finale della pergamena: il mantello di una vacca o di una pecora bianche tenderà a produrre una pergamena bianca, e le ombre marroni, esteticamente piacevoli, che si intravedono sulla superficie di una pergamena possono essere dovute all’uso della pelle di vacche o capre chiazzate. 
Il processo di lavorazione vero e proprio procedeva nel modo seguente: in primo luogo, la pelle andava lavata in acqua fredda corrente per un giorno ed una notte, secondo una fonte, o semplicemente finche non fosse pulita, secondo un’altra. Appena la pelle comincia a marcire, i peli cadono naturalmente. Nei paesi caldi la pelle ancora fradicia poteva essere lasciata al sole per facilitare tale processo.

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Un moderno produttore di pergamena mentre stira la pelle ancora bagnata su un telaio di legno, attaccando ad esso i bordi della pelle per mezzo di ganci regolabili.

Di solito, tuttavia, il processo di depilazione è indotto artificialmente attraverso un lavaggio in vasche di pietra o legno in una soluzione di acqua e calce che dura dai tre ai dieci giorni avendo l’accortezza di rimescolare frequentemente il liquido nel cassone con un palo di legno. Una alla volte le pelli bagnate e scivolose sono tirate fuori e stese con la parte pelosa su un telaio ligneo curvo a forma di scudo. A questo punto con l’ausilio di un coltello ricurvo con manici di legno per ogni lato, vengono grattati via i peli e viene alla luce la pelle completamente depilata, risultando rosa dove il pelo era bianco e maggiormente chiaro dove era marrone. Quando è possibile anche la superficie della cute, ovvero epidermide, viene eliminata.  Questa parte della pergamena, sulla quale c era una volta il pelo, è nota come la parte corrugata della stessa.

In seguito, la pelle depilata e pulita è ancora una volta sciacquata per due o tre giorni in acqua fresca per liberarla dai residui di calce. In una seconda fase del processo di lavorazione, la pelle così trattata viene finalmente trasformata in pergamena. Questo si concentra sulle operazioni di essiccaggio e stiratura della pelle, che avviene su un telaio di legno.
La pelle non conciata, floscia e bagnata, a causa del suo ultimo risciacquo, viene stesa in tutta la sua lunghezza su un telaio. Questo può essere tanto di forma circolare quanto rettangolare. La pelle, tuttavia, non poteva essere appesa sul telaio mediante cucitura in quanto seccandosi si ritira e così i margini finirebbero per strapparsi (inoltre i telai che venivano in continuazione riusati sarebbero divenuti inservibili qualora fossero stati crivellati di buchi per le cuciture); perciò, il Lavoratore di Pergamena distendeva la stessa attraverso l’uso di corde connesse a morsetti di legno regolabili. 

Ad intervalli di pochi centimetri l’uno dall’altro, l’artigiano metteva dei piccoli ciottoli o sassi levigati che venivano avvolti nel margine della stessa pergamena così da formare dei piccoli nodi chiusi per mezzo di una corda. L altro capo della stessa corda veniva assicurata ai morsetti regolabili del telaio. Uno per uno questi nodi e le corde sono posizionati tutto intorno fino a che tutta la struttura assomiglia ad un trampolino verticale, mentre i morsetti regolabili vengono stretti per tirare la pelle.

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I buchi naturali nei fogli di pergamena utilizzati per i manoscritti sembrano essere piuttosto frequenti nella produzione editoriale monastica dal momento che gli stessi monaci non potevano permettersi (o non si curavano di avere) pergamene perfette, non danneggiatesi nelle precedenti fasi di lavorazione. Il copista doveva, dunque, scrivere tutto intorno al buco stesso, come mostrato da questa pagina probabilmente manoscritta presso l’Abbazia di Gloucestershire.

Tirandosi la pelle, ogni piccolo foro o fessura creatasi nel corso della depilazione e scorticamento, allargandosi, prendeva forma circolare. Infatti, non è raro incontrare proprio questo tipo di fori nelle pagine o sui margini dei manoscritti medievali. Se l’artigiano si rendeva conto in tempo della presenza di tali fessure poteva tentare di porvi rimedio cucendo i due lembi affinché il foro non si allargasse maggiormente; in qualche caso è possibile notare sulle pagine dei manoscritti dei buchi intorno ai quali si notano segni di cucitura, fatto che indica un tentativo di riparazione non andato a buon fine, essendosi la fessura riaperta sotto la pressione del tiraggio. 

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A questo punto la pelle è piana e gommosa ma ancora bagnata. L’ artigiano all’inizio la mantiene umida gettandole sopra secchi di acqua calda. In seguito inizia a grattarla vigorosamente per mezzo di un coltello ricurvo con un manico centrale. Un coltello dritto avrebbe, infatti, un angolo di incidenza troppo acuto sulla pergamena e potrebbe quindi tagliarla. La mezzaluna, chiamata in latino lunellum, era lo strumento principe del Lavoratore di Pergamena con il quale viene, infatti, spesso ritratto nell’iconografia medievale; questo veniva adoperato per scorticare entrambi i lati della pergamena, particolarmente alla Parte della pelle (interna). 
Procedendo il lavoro, l’ artigiano è costantemente impegnato a tirare i morsetti regolabili e a tenerli fissi mediante martellatura.

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Una rivendita di pergamena così come illustrata in una cronaca italiana del secolo XI. Mentre un uomo sta riducendo la pelle in fogli rettangolari, un altro sta trattando altri fogli con la calce per renderli adatti alla scrittura. La merce stipata sugli scaffali comprende tanto rotoli quanto pacchi di fogli già pronti.

Finalmente alla pelle è consentito asciugarsi sul telaio e, nel corso di tale processo tirandosi diviene sempre più piatta. Quando è completamente secca la depilazione e la scorticatura ricominciano. A questo punto la pelle è tesa come quella di un tamburo e il rumore provocato dal coltello sulla pelle è notevole.

Nei primi tempi, quando la produzione di pergamena era affidata ai soli monasteri, la pergamena era assai spessa ma, a partire dal XIII secolo era divenuta levigata e fina come un tessuto. La parte granulosa, dove un tempo erano i peli dell’animale, doveva essere ben spellata, specialmente in quest’ultimo stadio, per eliminare ogni riflesso vitreo, insoddisfacente come superficie per la scrittura.

A questo punto il foglio poteva essere sciolto dal telaio.

La pergamena, ormai secca, fina ed opaca, poteva così essere arrotolata per essere conservata o venduta. Probabilmente, quando gli scrivani o i librai medievali acquistavano della pelle da un Lavoratore di Pergamena, essa era proprio in questo stato, non ancora lucidata ed ammorbidita, attraverso l’uso del gesso, per essere pronta per la scrittura. I prezzi della pergamena variavano grandemente, ma i fogli venivano generalmente venduti a dozzine.

La pergamena è un materiale estremamente duraturo, molto più della semplice pelle. Può, infatti, resistere per migliaia di anni in perfette condizioni. Una pergamena di buona qualità è morbida, fina e vellutata e si piega con facilità. La parte maggiormente granulosa, dove una volta era il pelo, è di solito di colore più scuro: color crema o giallo (nel caso della pelle di pecora), o marrone per la pelle di capra.   

il Papiro

Tuttavia, non tutti i manoscritti medievali erano scritti su pergamena. Il Medioevo, infatti, conservò a lungo l’uso della produzione di libri con il papiro e questo fragile materiale originario dell’Egitto continuò ad essere occasionalmente utilizzato fino al VII/VIII secolo d.C. Il papiro è un materiale assai economico e specificamente adatto ad essere adoperato per la produzione di documenti nella forma di rulli; al contrario questo stesso materiale non risulta essere appropriato per la produzione di testi rilegati in forma di libri in quanto le pagine tendono a deteriorarsi quando vengono ripetutamente girate e le pieghe.
La scarsa consistenza e resistenza di questo particolare materiale ne determinarono il destino come materiale per la scrittura ed anche la forma che i codici potevano assumere: quella del rotolo.

Schema generale di un rotolo di papiro: A. Foglio di Papiro, B. Protocollo, C. Fogli verticali di papiro, D. Fogli orizzontali di pergamena, E. Giunture, F. Bastoncini di forma rotonda.


Questo poteva variare notevolmente nelle sue dimensioni. Alcuni raggiunsero la lunghezza di quaranta metri ma di solito le misure erano comprese fra i sei ed i dieci metri. Il testo veniva sistemato in colonne da sinistra a destra. Per meglio preservare i rotoli, questi venivano imballati in fodere di legno od osso con terminazioni in forma rotonda. Il rotolo così protetto veniva poi messo in una custodia di pelle. La produzione di papiro fra IV e VI secolo d.C. rimase un monopolio egiziano e, anche dopo la conquista araba (640 d.C.) continuò ad essere prodotto nella regione fino al X scolo. A partire dal pontificato di Gregorio I (590-604), questa industria si spostò in Sicilia dove le piantagioni di papiro sopravvissero sino al XIII secolo. La cancelleria papale continuò ad usare il papiro come mezzo di corrispondenza ufficiale fino al secolo XI. Infine, occorre ricordare che nell’attuale lingua Inglese la parola paper che indica la carta etimologicamente deriva dalla voce papiro.

 la Carta

Vi sono numerosi manoscritti medievali scritti su carta. Già nel XV secolo i piccoli libri economici per i preti e gli studenti erano fatti di carta più che di pergamena. Ma anche le librerie degli aristocratici possedevano libri su carta. Alcuni manoscritti di carta sono sopravvissuti con entrambi i fogli esterni dei fascicoli di pergamena, forse perché la pergamena essendo più resistente proteggeva meglio queste parti che erano maggiormente sottoposte all’usura. La carta fu un invenzione cinese, risalente forse al II secolo e questa tecnica di produzione impiegò circa mille anni per giungere, attraverso il mondo arabo, in Occidente. A partire dal XIII secolo c’erano mulini per la produzione di carta in Spagna, Italia ed in Francia dal 1340, in Germania dal 1390 ma probabilmente, non per l’Inghilterra dove occorre attendere il tardo XV secolo. La carta era esportata dai luoghi di produzione in tutta Europa  

Intorno al 1400 la carta divenne un mezzo comune per piccoli volumi di sermoni, libri di testo economici, opuscoli popolari e così via. Non più tardi del 1480 una regola dell’Università di Cambridge prevedeva che i soli libri di pergamena fossero accessibili al prestito. La carta veniva, dunque, considerato materiale irrilevante. Fu con l’invenzione della stampa negli anni cinquanta del XV secolo a trasformare il mercato ed il volume di produzione della carta tanto da abbatterne i costi e da farne, nel tardo XV secolo, il supporto per tutti i libri a parte i più lussuosi.

La carta medievale era fatta da cenci di lino. È infatti maggiormente resistente e duratura della carta moderna a base di polpa di legno e gli scrivani del XV secolo si sbagliavano nel considerare scarsa la sua affidabilità. La carta di cenci veniva fatta come segue: gli stracci bianchi erano selezionati e lavati minuziosamente in una tinozza con buchi di drenaggio e poi lasciati a fermentare per quattro o cinque giorni. In seguito, i cenci che vanno disintegrandosi sono tagliati a pezzi e battuti per alcune ore in acqua corrente, lasciati macerare per una settimana e poi battuti ancora e così via per molte altre volte fino al momento in cui si trasforma in una polpa fluida. Allora viene versata in una grande tinozza.

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Un telaio di fili veniva immerso nella vasca e , una volta estratto, tirava su una pellicola di fibre bagnate; poi veniva scosso e liberato dalle sgocciolature e finalmente svuotato su un panno di feltro. Su di esso si poneva un altro panno di feltro e così ogni foglio umido veniva posizionato all’interno di una struttura fatta di strati di fogli di carta e di panni feltro alternati. In seguito, questa struttura multistrato veniva pressata per togliere l’acqua in eccesso ed i fogli di carta rimossi e posti ad asciugare. Una volta pronti, i fogli venivano imbozzimati attraverso l’immersione in una colla animale ottenuta dall’ebollizione di scarti di pellame. 
L’ imbozzimatura rendeva la carte meno assorbente e le consentiva di trattenere l’inchiostro. In questo stadio, i fogli potevano essere nuovamente pressate per essere resi maggiormente piani.

Qualche volta, in particolare nell’Italia del nord est (certamente sotto l’ influenza araba) la carta veniva lucidata per mezzo di una pietra levigata per ottenere una superficie lucida. Accade che il telaio lasci delle righe nei punti dove la polpa di carta era più fina e, a partire dal 1300, i produttori di carta europei iniziarono ad inserire nell’intreccio del telaio dei bolli in modo che immagini divertenti o emblematiche fossero anch’esse impresse nello spessore della carta.
Questi marchi erano invisibili quando il foglio era steso o piegato in un libro ma risultavano ben visibili controluce. Questo tipo di filigrana divenne pian piano un mezzo per distinguere i diversi mercati e luoghi di produzione della carta. 
Prima che uno scriba medievale potesse iniziare a scrivere un manoscritto occorreva decidere se usare carta o pergamena. La carta era più economica e leggera avendo anche il vantaggio di venir fornita già nell’esatto formato necessario. La pergamena, ritenuta maggiormente resistente, possedeva anche una superficie rugosa che permetteva una maggiore flessibilità nell’uso della penna rispetto alla piattezza della carta. I manoscritti più belli ed elaborati erano, quindi, prodotti con la pergamena, che era infatti utilizzata per i Libri della Ore e ed altri libri tradizionali destinati ad una lunga vita.

La pergamena e la carta così come venivano finiti dai lavoratori della pergamena o da quelli della carta erano forniti in grandi fogli rettangolari. Un libro non è fatto di singole pagine ma di paia di fogli ovvero bifolia. Diversi paia di fogli sono assemblati assieme uno dentro l’atro, piegati verticalmente fino alla metà e possono essere incollati nel mezzo della piega centrale per ottenere un libro nella sua forma più semplice. Ognuna di queste giunzioni di bifolia ripiegati è detto fascicolo o quaderno. Generalmente tutti i manoscritti medievali sono costituiti da fascicoli. Un manoscritto è un entità formata dall’assemblamento in sequenza di unità più piccole. Scrivani e miniaturisti lavoravano un fascicolo per volta. Esaminando oggi un manoscritto medievale, il primo compito deve essere quello di scrutare il centro dello stesso per individuare le legature e comprendere dove fisicamente iniziano e finiscono i diversi fascicoli. Un fascicolo è di solito costituito da otto fogli ovvero da quattro bifolia. Nei primi manoscritti irlandesi e nei libri italiani del XV secolo i fascicoli potevano spesso essere di dieci fogli. Le piccolissime Bibbie del tredicesimo secolo, che utilizzavano pergamena estremamente fina, erano solitamente fatte con fascicoli costituiti da dodici, sedici o anche ventiquattro fogli. Alle volte un libro era fatto principalmente di fascicoli da otto fogli ma finiva con uno di sei o dieci poiché la conclusione del testo vi entrava più comodamente. Altre volte, all’interno di un medesimo manoscritto potevano trovarsi fascicoli di lunghezza irregolare e ciò indica come il libro venne effettivamente assemblato.

Come già detto, esistono notevoli differenze fra i due lati della pergamena, la Parte della pelle (interna) e la Parte del Pelo. Anche nella carta prodotta a mano, ad un attento esame, è possibile individuare da quale parte la filigrana e le tracce del telaio vennero impresse. Praticamente senza eccezioni, lungo una storia di produzione editoriale europea di oltre mille anni, in ogni possibile circostanza, le superfici delle pagine corrispondevano: la Parte della pelle (interna) era di fronte alla Parte della pelle (interna)), e la Parte del Pelo collimava con la Parte del Pelo, e per la carta, la parte filigranata era di fronte ad un’altra. È un fatto straordinariamente costante ed anche sorprendente in quanto i manuali dell’arte no ne fanno menzione alcuna. Un interruzione di tale regolare sequenza è così raro da poter essere considerata senza dubbio una della prime indicazioni che nel manoscritto mancano alcune pagine.

Se prendiamo un foglio di carta ordinario dalla forma oblunga, colorato o comunque in qualche modo marcato da una sola parte, e lo si depone orizzontalmente su una tavola con la parte colorata in alto, e poi lo si pieghi centralmente a metà secondo la sua altezza verticale, la forma così ottenuta sarà detta foglio. Se adesso lo si piega ancora una volta a metà, piegandolo secondo la sua metà orizzontale, resta oblungo ma maggiormente quadrato ed il suo formato si dice quarto, poiché è composto da quattro spessori ripiegati. Piegandolo ancora a metà il blocco cartaceo diviene un ottavo della forma originale e viene detto ottavo. Immaginando che esso sia un fascicolo all’interno di un libro avrà una piega centrale e margini non tagliati. Aprendo con u tagliacarte o con un dito i margini pagina dopo pagina si potrà notare come la Pagina I è bianca, le Pagine 2 e 3 che sono l’una di fronte all’altra, sono colorate, 4 e 5 sono di nuovo bianche e corrispondenti e così via. Se si fosse trattato di pergamena, non importa quante volte lo si poteva piegare, Parte della pelle (interna) del foglio era di fronte alla Parte della pelle (interna), e la Parte del Pelo collimava con la Parte del Pelo. Presumibilmente questo era il metodo con il quale si piegavano i fascicoli nel Medioevo. Durante l’Alto Medioevo, gli scrivani probabilmente assemblavano i loro fascicoli e vi scrivevano sopra nel corso della copiatura del manoscritto. Ma a partire dal XV secolo i Cartolai erano certamente in grado di fornire e vendere carta o pergamena già assemblati in fascicoli.   

La Penna 

La familiare e tradizionale immagine del copista medievale al lavoro sul testo con la sua penna d’oca è abbastanza corretta. Gli inchiostri dell’epoca erano maggiormente densi e gelatinosi rispetto a quelli attualmente in commercio ma, mentre, abbiamo numerose ricette medievali per la fabbricazione degli inchiostri mancano assolutamente istruzioni per la produzione delle penne. Ogni letterato doveva quindi essere in grado di prepararsi da solo le proprie penne e non vi era così necessità alcuna di descriverne la preparazione. La lavorazione delle penne d’oca per ottenere dei pennini doveva essere un attività talmente ovvia e familiare per tutti gli intellettuali, dall’Antico Egitto fino all’Inghilterra del XIX secolo, da non meritare nessuna menzione. Le piume migliori si ricavavano dalle remiganti di oca o cigno. È stato sostenuto qualche volta che le grafie minute venissero realizzate mediante l’uso di piume di corvo o cornacchia. Ciò sarebbe anche potuto essere possibile però occorre considerare la difficoltà di maneggiare una penna tanto piccola, in special modo quando si scrivesse una Bibbia di mille pagine, e le grafie minute, in fin dei conti, si sarebbero potute ottenere con una penna grande la cui punta fosse più finemente tagliata. I tacchini producono le penne migliori ma erano naturalmente sconosciuti all’Europa medievale. 

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Due penne d oca ed una di giunco. La penna sul lato superiore è stata adoperata per stendere l’intonaco, colorato con dell’argilla rosa, mentre le due penne in basso sono sporche di inchiostro.


Per un copista destrimane la penna maggiormente confortevole per lui doveva possedere una curva naturale sulla destra. Doveva quindi provenire dall’ala sinistra dell’uccello. Innanzi tutto, la punta finale veniva pulita e la maggior parte della peluria eliminata ed, infatti, le rappresentazioni medievali degli scrivani mostrano soltanto il fusto bianco e ricurvo. Le piume degli uccelli appena strappate o quelle trovate sulle spiagge sono troppo flessibili e devono, quindi, essere rese più dure. Per far ciò queste potevano essere o lasciate a seccarsi per qualche mese o bagnate in acqua ed in seguito spente in vaschette piene di sabbia incandescente per qualche minuto. A questo punto la grassa pellicola esterna al fusto ed il midollo interno ad esso possono essere facilmente eliminati e ciò che resta è un semplice tubo trasparente e vuoto. La punta viene affilata da entrambi i lati mediante un corto coltello affilato – coltello da penna – nella forma di pennino. Poi viene ammorbidita fra le mani (con un movimento simile a quello che si fa per pelare le patate) e una piccola fessura viene aperta al centro del pennino. Infine, tenendo la penna col pennino fermamente appoggiato su una superficie, il copista taglia la parte estrema del pennino rimuovendo una porzione di circa un millimetro per produrre un taglio squadrato e pulito.
Il copista medievale sicuramente preparava la sua penna abbastanza velocemente e senza grandi sforzi. Il taglio finale del pennino doveva essere ripetuto più volte nel corso della stesura di un manoscritto dal momento che la fessura sulla punta tendeva ad allargarsi a causa dell’uso.   

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S. Marco ritratto in un Libro delle Ore francese di epoca rinascimentale come uno scrivano che ha appena affilato la punta della sua penna e, dopo averne ricontrollato l’efficienza, si appresta ad intingerla nell’inchiostro.

Giovanni di Tilbury, uno degli studiosi facenti parte del circolo di Thomas Becket nel XII secolo, descrive come un impiegato sotto dettatura aveva bisogno di affilare il suo pennino così spesso che egli teneva fra sessanta e cento penne d oca già pronte. Ciò implica che un normale copista poteva affilare il suo pennino almeno sessanta volte nel corso di una giornata di lavoro.
Le rappresentazioni medievali dei copisti sono assai comuni sia nella forma di ritratti dell’autore all’inizio del testo, tanto come parte della classica iconografia relativa agli Evangelisti e ai Padri della Chiesa rappresentati mentre studiano. Così vi sono immagini di uomini con penne da tutti i periodi del Medioevo. 

In particolare nei Libri delle Ore, che spesso aprono la sezione delle Sequenze dei Vangeli con la miniatura di S. Giovanni che scrive sull’isola di Patmos, lo stesso santo viene rappresentato mentre guarda la sua penna, la affila (tenendo la punto verso il corpo e non verso l’ esterno come si usa nel temperare le matite), mentre la scortica con il coltello, scrivendo, ponendola dietro il proprio orecchio; così si ha il quadro di tutte le attività più familiari per il trascrittore.

L’inchiostro

Le penne d oca funzionavano come penne ad immersione nel senso che un copista non poteva lavorare senza avere accanto un recipiente pieno di inchiostro, il calamaio, ed, infatti, molte rappresentazioni di S. Giovanni sull’isola di Patmos includono la figura di un diavolo dispettoso che da dietro un cespuglio con un gancio tenta di far sparire il calamaio del Santo. 

Questa è una scena all’aria aperta ed il calamaio è portatile, probabilmente con una chiusura a vite ed è attaccato con una corda ad un astuccio oblungo per penne.

Negli scrittoi invece l’inchiostro era contenuto in corni e, qualche volta gli scrivani sono ritratti mentre tengono fra le mani tali contenitori ma più spesso entrambe le mani erano occupate a lavorare con penna e coltelli.

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Un copista non può scrivere senza inchiostro. Le miniature concernenti S. Giovanni che mette per scritto il Libro della Rivelazione, infatti, non di rado illustrano la legenda del tentativo fatto dal Diavolo di sottratte all’Evangelista le sue penne ed il calamaio portatile così da impedirgli di terminare la stesura dell’ultimo libro della Bibbia. Rouen, Libro delle ore. 1480 circa.

Gli Evangelisti dipinti nei Vangeli di epoca Carolingia mostrano che essi tenevano l’inchiostro su un supporto separato, una sorta di porta lampada, accanto al tavolo di lavoro (una buona precauzione pensando quanto sia facile rovesciare un calamaio). Le raffigurazioni basso medievali presentano i corni contenenti l’inchiostro generalmente inseriti in cerchi di metallo a loro volta attaccati al margine destro del tavolo di lavoro e ve ne potevano essere da due a tre. Vi sono esempi in cui i corni con l’inchiostro sono inseriti in una serie di buchi verticali sulla superficie del tavolo e loro punte escono fuori dal fondo dello stesso tavolo.

Abbiamo numerose ricette medievali per la fabbricazione dell’inchiostro. Vi erano due tipi d inchiostro completamente differenti. Il primo è una mistura di nerofumo e gomma, a base quindi di carbone.

 Il secondo è a base di noce di galla e di metallo, di solito una soluzione di acido tannico e solfato di ferro; anche questo richiede l’addizione di gomma come additivo per la consistenza più che per renderlo maggiormente adesivo. Il colore nero è il risultato di una reazione chimica. Entrambi i tipi di inchiostro erano in uso durante il medioevo. L inchiostro di nerofumo era adoperato nell’antichità e nel mondo orientale e viene descritto in tutte le ricette medievali fino al XII secolo. Anche l’inchiostro a base di noce di galla e metallo era in uso almeno dal III secolo ma non vi sono descrizioni della sua preparazione fino al primo XII secolo con Teofilo. Da questo momento le ricette artigianali descrivono tali inchiostri e, probabilmente, tutti i manoscritti tardo medievali sono scritti con questo stesso tipo di inchiostro. 
La ricetta è interessante ed è sorprendente apprendere che il principale ingrediente è la galla di quercia, una curiosa formazione tumorale rotonda, della misura di una piccola biglia, che cresce sulle foglie e sui rametti della quercia. Si forma quando all’interno del germoglio quercia una vespa depone le sue uova ed una sfera soffice e di colore verde pallido che si forma intorno alle larve.  

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Galle sul ramo di una quercia. Il piccolo buco presente su ognuna di esse mostra il luogo dal quale la vespa è fuoriuscita dopo aver deposto le uova.

È possibile trovare le noci di galla sugli alberi di quercia, anche ai giorni nostri, benché le migliori erano ritenute quelle importate da Aleppo nel levante. Se raccolte troppo giovani le noci di galla si raggrinziscono come frutta matura ma quando la larva all’interno si sviluppa completamente in insetto che lascia il suo bozzolo vegetale attraverso un foro la noce che resta è ricca di acido tannico e gallico. Queste vengono frantumate e lasciate in infusione con acqua piovana sotto il sole o vicino al fuoco. Alle volte vino bianco o aceto potevano essere utilizzati al posto dell’acqua piovana.

Dunque, questo è il primo ingrediente di questo tipo di inchiostro. Il secondo è solfato di ferro noto anche come copparosa verde, vitriolo verde o salmortis. Questo componente poteva essere prodotto artificialmente o trovato naturalmente come risultato dell’evaporazione dell’acqua nei terreni ferrosi.

La copparosa verde, a partire dal tardo XVI secolo, veniva prodotta versando acido solforico su vecchi chiodi, filtrando il liquido così ottenuto e mischiandolo con l’alcol (ciò potrebbe spiegare l’acidità degli inchiostri post-medievali).
 La copperosa verde viene poi addizionata alla pozione a base di noce di galla e rimescolato con un bastone di fico. La soluzione così ottenuta passa da un marrone pallido al nero.
A questo punto, viene aggiunta della gomma arabica non tanto per aumentarne le capacità adesive ma per incrementarne la densità. Le penne d oca necessitano di un inchiostro viscoso mentre le penne stilografiche no. La gomma arabica è la resina dell’acacia che viene seccata, importata in Europa dall’Asia minore. L inchiostro a base di noce di galla si scurisce ancor più quando esposto all’aria sulle pagine dei manoscritti. Viene ben assorbito dalla pergamena al contrario di quello a base di nerofumo può essere rimosso con una certa facilità; l’inchiostro a base di noce di galla è anche maggiormente lucido e splendente dell’altro che risulta più nero e granuloso.
Le raffigurazioni medievali spesso mostrano due corni contenenti inchiostro sulla destra del tavolo. Il secondo contenitore era probabilmente per l’inchiostro rosso. Quest’ultimo era molto usato nei manoscritti medievali per titoli, sotto titoli e rubriche (da qui la parola stessa) nei manoscritti liturgici, e per i giorni marcati con lettere rosse nei Calendari. Le correzioni del testo erano alle volte effettuate in rosso, per sottolineare l’attenzione con la quale il testo era stato rivisto. Inchiostri blu e verdi esistevano ma erano assai rari; il rosso era, dunque, il secondo colore. L uso del colore rosso risale per lo meno al V secolo e fiorì fino al XV secolo. Deve essere stata la diffusione della stampa, per la quale era assai difficile produrre testi a colori, ad intaccare la convinzione medievale che i libri dovevano essere esclusivamente in rosso e nero. I libri a stampa erano solo in nero ed apparivano più monotoni. Il vermiglio si otteneva con solfati di mercurio che viene trasformato in inchiostro rosso mediante frantumazione e mescola con chiara d uovo e gomma arabica. L inchiostro rosso si può ottenere anche dalla scorza del brasile o verzino infusa in aceto e mischiata con gomma arabica. Occorre spiegare che questo tipo di vegetale non è originario del sud America ma, al contrario, data l’abbondanza di tale albero noto ai fabbricanti di inchiostro in queste regioni fu esso stesso a donare il nome all’area geografica.  

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Jean Miélot (+ 1472), canonico della città di Lille e segretario di due duchi di Borgogna, notevole traduttore e copista, viene presentato in questa miniatura come il copista-studioso ideale nel suo studio colmo di manoscritti e strumenti di lavoro.

L’ originale e la copia erano posti sul tavolo inclinato l’uno accanto all’altro. Nelle miniature si vede che i manoscritti erano tenuti aperti grazie a dei pesi appesi ad ogni margine con una corda che aveva un capo ciondolante sul retro del tavolo e l’altro sulla sommità della pagina. Un manoscritto di pergamena tendeva a chiudersi se non viene mantenuto aperto. Alcune volte i pesi sono rappresentati come all’incirca triangolari con sommità rotonde e parti inferiori estremamente allungate.

Nel momento in cui lo scrivano si accingeva a copiare il testo, risultava per lui semplice spingere il peso in basso sulla pagina così che la parte inferiore, estremamente allungata, avrebbe segnato esattamente il suo posto sull’originale. I copisti sedevano su sedie molto alte (giudicando dal materiale iconografico) di fronte ad un tavolo inclinato

Alcune illustrazioni medievali presentano la superficie del tavolo come attaccata alla sedia, apparentemente attraverso cardini, in modo da permettere al copista di sedersi per poi rimettersi in posizione, come negli odierni seggiolini per bambini. Stando alle rappresentazioni, tuttavia, appare difficile immaginare come il copista potesse riuscire a muoversi nella sedia anche se munita di cardini. L inclinazione era assai ripida. Le penne d oca sono maggiormente funzionali quando si adoperino con un inclinazione ad angolo retto rispetto alla superficie dello scritto e ciò e più semplice da ottenere su di un piano inclinato. Per uno moderno scrivano, inoltre non pratico, rimarrebbe difficile scrivere con un inclinazione così ripida a causa del modo in cui la penna viene oggi tenuta che necessita il riposo della parte finale della mano e delle dita sulla superficie della pagina. Ma una penna mantenuta nel modo descritto precedentemente richiede scarsamente che la mano tocchi la superficie del foglio ed il movimento è legato al braccio più che alla mano. Per questo motivo la flessibilità consentita dall’inclinazione del tavolo era ideale. Dal momento che l’inchiostro impiega qualche momento per asciugarsi si può notare come nella pagina dei manoscritti medievali la concentrazione dello stesso inchiostro risulta maggiore nella parte inferiore delle lettere dal momento che si è seccato assecondando l’inclinazione del tavolo.

Il Manoscritto Medioevale
Laurenzio, priore di Durham fra il 1149 ed il – 54, è rappresentato come copista in un manoscritto a lui contemporaneo di un suo proprio lavoro che ancora oggi si conserva a Durham, nell’atto di stirare la pagina con un coltello che tiene nella mano sinistra.

Inoltre, nel momento di cominciare la copiatura, al copista veniva raccomandato dai precetti dell’arte di passare un ultima volta la pergamena con pomice e gesso per ammorbidirla.
Ciò rimuoveva ogni grasso che poteva essersi accumulato nel maneggiare e ripiegare i fogli di pergamena e per ridurre il rischio che l’inchiostro sbavasse.

Nel momento della scrittura vera e propria lo scrivano teneva in mano un coltello. Azione universale ed importante nel medioevo. Lo scrivere, come il mangiare, era un gesto che prevedeva l’uso di entrambe le mani. Ciò significa che egli non si ritrovava una mano libera per poter seguire io testo dell’originale.

Il coltello, usato per appuntire la penna e per cancellare gli errori (velocemente prima che l’inchiostro venga assorbito), assolveva anche la funzione di stendere la pagina di pergamena, sempre troppo rugosa, e per scorrere lungo le linee man mano che il copista scriveva ogni parola.

Riordinare una pagina con l’aiuto delle dita, infatti, può essere fonte di unto e scomodo allo stesso tempo mentre il coltello permette maggior controllo e precisione.  

 i Pigmenti

La varietà di colori a disposizione del decoratore di manoscritti medievali era sorprendentemente vasta. Il rosso, ad esempio, poteva essere a base di cinabro, solfato d mercurio, estratto fin dall’Antichità in Spagna e sul Monte Amiata, presso Siena, ed in altri posti. Il vermiglio è simile nella composizione chimica ed era prodotto attraverso il riscaldamento di mercurio misto a zolfo e poi raccogliendo e tritando gli accumuli creatisi con il vapore durante la fase di riscaldamento. Essendo una mistura assai velenosa il vecchio trucco di bottega di leccare la punta del pennello per renderla pronta all’uso era un rischio calcolato. In alternativa il rosso poteva essere fatto grazie ad estratti vegetali come il brasile o verzino. Tale pianta è già stata menzionata a proposito della produzione di inchiostri rossi. Il rosso rubino, ottenuto dalla pianta della robbia (rubia tinctorum) che cresce in Italia.  

Il Manoscritto Medioevale
Dall’Enciclopedia di Giacomo de Palmer. Lettera iniziale C per Colore.

Un rosso romanticamente chiamato sangue di drago viene descritto dalle enciclopedie medievali come il risultato del mescolarsi del sangue di un drago e quello di un elefante che si sono uccisi in battaglia. I botanici asseriscono che si tratta del prodotto della corteccia del Pterocarpus draco. Il blu, dopo il rosso, è il secondo colore più comune nei manoscritti medioevali. Probabilmente la fonte maggior colorante era l’azzurrite, una roccia blu ricca di rame che si trova in numerose località europee. Un altro tipo dello stesso colore, anche se maggiormente tendente al violetto, era ottenuto dai semi di un girasole, ora detto Crozophora. Ma il blu di maggio pregio era quello ultramarino, prodotto dal lapis lazuli, roccia tipica solamente dell’Afganistan.

 Il percorso di questa pietra per raggiungere l’Europa resta difficilmente immaginabile, dal momento che essa era reperibile molto prima di Marco Polo; doveva passare da carovana a carovana, trasportato prima in borse su cammelli, poi su carri ed infine su barche, e così via prima di poter giungere nelle rivendite nordeuropee dove era venduto a carissimo prezzo. Il lapis lazuli del salterio di Winchester, del XII secolo, infatti, venne raschiato in modo da poter essere ri-usato. L inventario del Duca di Berry, effettuato nel 1401-3, include fra i suoi tesori di incommensurabile valore due coppe preziose contenenti blu ultramarino. Vi erano, inoltre, altri pigmenti quali il verde ottenuto dalla malachite o dal verderame, il giallo da pietre vulcaniche o dallo zafferano, il bianco dal piombo. Numerose erano anche le differenti tecniche utilizzate per fabbricare la tinta dai pigmenti. I diluenti si facevano a base di vescica natatoria di storione o di grasso animale prodotto attraverso l’ebollizione di pezzi di pelle. Macinare e mescolare, trovando la giusta gradazione, i colori era no prerequisiti essenziali nella fattura delle decorazioni dei manoscritti miniati. 

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