Arte & Artigianato

La scagliola: storia tecnica e restauro

 

La tecnica

La scagliola si ottiene dalla selenite (solfato di calcio biidratato) un minerale che in natura si presenta con una caratteristica struttura a scaglie. I pezzi di selenite sono estratti dalle cave (l Appennino Emiliano, la Lombardia e la Calabria ne sono ricchi) e posti in forno dove alla temperatura di 128° C si disidrata e polverizza.

In seguito la polvere è pestata in un mortaio per polverizzarla completamente, e dopo averla ben setacciata da ogni impurità si ha la polvere bianca detta scagliola. Questa polvere rimescolata all’acqua, tende a ricomporre la sua struttura molecolare originaria, ma il gesso che si ottiene è fragile e tenero.
Verrà quindi mescolata a colle, solitamente colla madre molto diluita, chiamata acqua di colla.

Sulla scelta dei pigmenti per colorare la scagliola gli artisti hanno potuto godere dell’esperienza acquisita nel campo degli affreschi che ha fornito preziose informazioni riguardo la compatibilità con i gessi. Si tratta di tutte le terre naturali e bruciate, dei derivati dell’ossido di ferro e di alcune lacche di origine vegetale (garanza, gialla, viola porporina). Particolare rilievo i neri che sono spesso stati l’unico pigmento, nelle opere monocrome: nero fumo, caldo e intenso; nero di vite, leggermente trasparente; nero avorio, grigiastro e freddo.

La lavorazione avviene su un piano ligneo, si tratti della realizzazione di un piano di tavolo o di un paliotto, dove viene gettato il letto di scagliola per accogliere l’armatura. Questa è prevalentemente fatta di canne palustri, ma ci sono esemplari con armatura lignea o addirittura di cocci di mattone; su di essa si posa la seconda gettata, la coperta.

Perchè tutto sia asciutto e pronto da staccare dalla base lignea occorrrono dai 15 ai 20 giorni. Solo a questo punto viene realizzato il disegno, in genere con l’aiuto dello spolvero del disegno preparatorio. Gli scavi, profondi per il disegno e superficiali per il chiaroscuro, sono fatti con sgorbie a “V”, “C” e “U”. In seguito avviene il riempimento delle incisioni con paste colorate o monocrome.

L ultima sequenza è quella della levigatura, con carbon dolce di faggio o salice, e lucidatura a base di olio di oliva e di noce. La lucidatura è molto insistente ed accurata proprio per proteggere il manufatto altrimenti troppo sensibile all’umidità, per garantire insomma buone proprietà di resistenza e impermeabilità.
La lavorazione, secondo questi procedimenti, di un paliotto di medie dimensioni o di un piano da tavolo medio-grande dura circa tre mesi.

 

 

Foto 24: Sezione del supporto (prime due foto in alto): armatura in canne palustri

Foto 25:(in basso) Riproduzione di un cartone preparatorio, forato per eseguire lo spolvero

 

 

Problemi di conservazione e restauro

Il degrado delle opere in scagliola è principalmente dovuto alla porosità dell’impasto, che subisce in modo sensibile gli sbalzi di umidità.
L eccessiva umidità è causa dello sfarinamento e di altri mutamenti meno gravi ma “premonitori” di una situazione critica: striature giallastre, imbianchimento, affioramento di muffe. Se avviene un distacco dal supporto, oltre alle cause climatiche bisogna supporre un difetto di lavorazione.

 

 

Foto 26: Il restauro di questo tipo di manufatti è molto difficoltoso perchè -ad oggi- il deterioramento che subiscono è ancora da considerarsi irreversibile.
L unico tipo di intervento proposto è quindi quello restitutivo, integrativo delle parti che siano andate perdute, con un restauro estetico riconoscibile dall’originale.

 

BIBLIOGRAFIA sull’arte della scagliola

Graziano Manni, MOBILI ANTICHI IN EMILIA ROMAGNA
Poligrafico Artioli, Modena, 1980

Augusto Giuffredi, LA SCAGLIOLA RITROVATA
Comune di Montecchio Emilia, 2001

Colli, Garuti,Pelloni, LA SCAGLIOLA CARPIGIANA E L ILLUSIONE BAROCCA
Ed. Artioli, Modena, 1990

Eustachio Cabassi, NOTIZIE DEGLI ARTISTI CARPIGIANI
Ed. Panini, Modena 1986

Sito internet del MUSEO DELLA SCAGLIOLA, Comune di Carpi.

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