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Dall’olio di lino alle oleoresine

In questo articolo vediamo come da sempre le vernici prodotte in epoca storica erano costituite fondamentalmente da una mescolanza di olio, resine e diluente. Sia passa così dall’olio di lino alle oleoresine.

Fonte: Liberamente tratto da “Le Antiche vernici per il legno – resine-oli-cere-pigmenti ” di Pierpaolo Masoni
Caratteristiche delle oleoresine

Come già detto l’olio che è sempre stato considerato il migliore è quello di lino. La caratteristica che gli ha conferito questa fama è data dal fatto che oltre ad un processo di essicazione, questo olio subisce un processo di polimerizzazione particolare. Varie molecole si uniscono  creando un reticolo tridimensionale dalla struttura specifica con due caratteristiche ben precise: è impermeabile all’acqua, ma contemporaneamente è permeabile al vapore. Ciò significa che tale pellicola conferisce all’oggetto verniciato idrorepellenza senza togliere traspirazione.
La combinazione di queste due caratteristiche era tenuta in gran conto dal momento che un unico prodotto riusciva a realizzare le due prerogative fondamentali per la conservazione del legno.
Spesso  all’olio di lino veniva aggiunto un altro olio per modificarne le qualità. Ancora oggi la maggior parte delle oleoresine contengono una certa percentuale di olio di tung che ne accentua la essiccatività e la durata nel tempo.
Se si pensa al grande numero di oli usati ed alla varietà di resine, ci rendiamo conto della notevole quantità e della varietà delle vernici prodotte in epoca storica. Fondamentalmente si trattava di una mescolanza di olio, resine ed un diluente. 
Le caratteristiche finali, come si è detto, variavano in base alle proporzione dei componenti ed alla loro natura. 

Metodi per la preparazione delle oleoresine


Molto importante è la proporzione tra olio e resina. , poiché ciò determina le caratteristiche della pellicola finale. Di qua nasce la distinzione fra vernici corte in olio, medie in olio o lunghe in olio.
Va anche detto che, contrariamente alle credenze popolari, difficilmente l’artigiano si dedicava alla realizzazione delle vernici con le quali dava una protezione ai propri manufatti. Le difficoltà erano troppe; incominciavano da quelle del reperimento delle materie prime, i loro prezzi, la loro qualità discontinua, per arrivare poi a problemi tecnici quali la cottura degli oli, la pirogenazione delle resine, le pratiche necessarie per rendere l’olio essiccativo, ecc.  

Metodi moderni

I passaggi fondamentali della fabbricazione di una classica vernice erano questi:

  • 1.    cottura dell’olio. La cottura determina un inizio di polimerizzazione che poteva essere accentuato con una serie di cotture successive; in questo caso si ottiene uno standolio, cioè un olio più denso, adatto per vernici filmanti. Fino ad un certo periodo storico durante la cottura veniva aggiunta una certa quantità di calce che aveva lo scopo di conferire all’olio maggior siccatività. Questa pratica venne abbandonata durante il 1600, preferendo l’uso di sali metallici.
  • 2.    pirogenazione della resina: consiste nel portare la resina ad una temperatura leggermente superiore alla sua temperatura di fusione, così da renderla solubile nell’olio, cosa altrimenti impossibile. Si può ricorrere all’escamotage di scioglierla in alcol e poi procedere alla miscelazione, ma in questo modo si ottengono risultati scadenti, perdendosi molte delle qualità della resina.
  • 3.    aggiunta dei sali essiccativi.
  • 4.    aggiunta del diluente.

La vernice che in assoluto è stata la più diffusa in Europa per vari secoli si chiamava  Megylp e veniva prodotta in Olanda. Da varie fonti si desume che fosse composta da olio di lino cotto, elemi e trementina veneta. Resisteva molto bene all’umidità, motivo per il quale ebbe successo soprattutto nel nord Europa, ma era soggetta ad ingiallimento. Era tanto famosa ed usata da diventare sinonimo di vernice, tanto che con tale termine si arrivò ad indicare generiche aggiunte di resine anche in pittura. Addirittura si incontravano quelli che oggi definiremmo taroccamenti, vernici che venivano chiamate con storpiature del nome originale, tipo Megilp, Megilf, Megilph ecc….

Metodi antichi
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Vi sono testi che descrivono la preparazione di tali vernici. Interessante è la Schedula diversarum artium del monaco Teophilus Presbyter (probabile pseudonimo di Rogerus von Helmarshausen ) attivo a Francoforte presso la Chiesa di S Pantaleone sino al 1107, ritiratosi in seguito in un Monastero Benedettino a nord di Kassel ove installò il suo laboratorio. Si tratta di un manuale su arti applicate: pittura, arte vetraria, lavorazione dei metalli, databile fra il 1100 ed il 1120 le cui versioni manoscritte si trovano a Vienna presso l’Osterreichische Nationalbibliotek (codice 2527) ed a Woffenbuttel presso l’Herzog-August-Bibliotek ( codice Guelf 69).
Nella sezione dedicata alla pittura Teophilus descrive minuziosamente un processo di fabbricazione delle vernici oleoresinose che è rimasto inalterato per secoli, come è testimoniato da un altro scritto di Johann Zahn risalente al 1685: Oculus Artificialis Teledioptricus. Si tratta di un monumentale trattato sulla costruzione di apparecchi ottici. Un capitolo è dedicato alla preparazione di vernici di vario tipo, coloranti e pigmenti, il tutto destinato alle finiture interne ed esterne dei tubi ottici e delle parti accessorie.
Nel capitolo denominato Fundamentum III pratico-mecanicum, syngtagma III, caput X si trova la sezione Vernices varias oleagineas preparandi praxes variae indicatur, la Praxis II che contiene una ricetta all’ambra denominata Vernicis valde candicantis, esimiae et preclarae ex oleoliniet succino albo preparatio. Questo processo coincide perfettamente con quello descritto da Teophilus, prevedendo anche un’apparecchiatura simile rappresentata in una accurata incisione.

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Secondo la minuziosa descrizione che ne fa il Theophilus la resina viene posta in un vaso di terracotta; la sua apertura va chiusa da un secondo vaso a mò di coperchio, munito di un forellino sul fondo. La commessura fra i due vasi va sigillata accuratamente con argilla, in modo che non possa fuoriuscire alcun vapore. Un sottile ferro munito di manico serve ad agitare la resina attraverso il forellino della chiusura mentre fonde. In un altro vaso viene messo a scaldare l’olio di lino e, quando la resina è sciolta, cosa che si può controllare verificandone la consistenza mediante il sottile ferro, si aggiunge a poco a poco l’olio attraverso il foro. Si lascia poi bollire, e si controlla la consistenza della vernice spalmandone un po’  su un pezzo di legno o su una pietra. La vernice deve essere composta da due parti di olio ed una di resina.

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Analizzando la stampa riportata dallo Zahnn si noterà che le differenze dell’apparecchiatura rispetto a quella descritta dal Theophilus sono minime. In questo caso l’olio va posto nel vaso inferiore, direttamente sul fuoco. Sul recipiente va messa una piastra di rame o di ferro nella quale è ricavato un foro centrale; dentro tale foro viene posto un altro recipiente conico a mò di imbuto all’interno del quale si trova un setto nel quale sono ricavati tanti piccoli fori. 

Quest’ultimo recipiente va chiuso con un coperchio ed il tutto va sigillato con argilla ut nihil expirare queat.
Nel recipiente inferiore vanno messe otto once di olio di lino chiarificato al sole (olei lini optime ad solem distillati uncias octo); in quello superiore quattro oncie di ambra chiara (un’oncia equivale a 30 grammi). Come si vede le proporzioni sono le stesse consigliate dal Theophilus.Il tutto viene posto su un fuoco di carboni ardenti, ed una certa quantità di essi viene posta anche sulla piastra metallica che chiude il recipiente inferiore, e sulla quale è inserito quello superiore. Il calore dei carboni ardenti scalda l’olio mentre contemporaneamente fa sciogliere la resina che colerà lentamente attraverso il setto forato che fungerà da filtro.
Risale ad una ventina di anni dopo ( Roma 1720) il Trattato sopra la vernice comunemente detta cinese di Filippo Bonanni ove si descrive un procedimento analogo illustrato da incisioni simili a quelle dello Zhann, e nel 1805 a Ginevra viene pubblicato il Traitè theorique et pratique sur l’art de faire et appliquer les vernis nel quale si trova la descrizione di un fornello destinato esclusivamente alla fusione delle resine coppali e dell’ambra.
È da notare come anche in questo caso le resine sono chiuse ermeticamente durante la fusione che avviene quando la parte superiore del fornello viene riempita di carboni ardenti. Il coperchio, indicato con E, è a perfetta tenuta e viene coperto anch’esso di carboni quando viene caricato. La resina viene messa nel colino metallico posto all’interno del crogiolo C. La parte inferiore è dotata di sostegni poco ampi per far sì che l’operatore possa agevolmente raccogliere la resina fusa, oppure farla sgocciolare nell’olio.

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