Storia del Mobile in Emilia Romagna
Il Trecento
Nel Medioevo, la semplicità e la frugalità che caratterizzarono la vita e la precarietà per le lotte e le insidie di ogni genere non favorirono la produzione di arredi domestici tali da essere conservati con particolare riguardo, condizione indispensabile perché potessero essere sottratti agli inevitabili danni dell’uso quotidiano e degli agenti che aggrediscono il legno – umidità, muffe e tarli – per giungere sino a noi. A peggiorare questa già grave situazione non deve essere stata estraneo il giudizio del Vasari che, nel Cinquecento, ebbe a definire la produzione medioevale come il frutto di un gusto barbaro, giungendo a etichettarlo con il termine “gotico”, sinonimo dispregiativo che è pergiunto sino ai giorni nostri a designare quella mobilia realizzata tra il XIII e Il XIV secolo.
Già agli inizi del Trecento ad Augusta era stata introdotta l’innovazione della sega ad acqua, che certamente ebbe già in questo secolo grande importanza per la realizzazione di mobilia di più leggere proporzioni in virtù delle mutate possibilità di tagli lignei di misure ridotte. Certamente anche in questi secoli lontani non mancarono esemplari insigni, come peraltro inventari quattrocenteschi parrebbero confermare, tuttavia per quanto pertiene la mobilia regionale nulla di significativo è giunto ai nostri giorni o perlomeno risulta attualmente noto ad eccezione di alcuni arredi chiesastici, meglio attestati in regione, come il celebre coro realizzato dal maestro Giovanni da Baisio nel 1384 nella chiesa di San Domenico a Ferrara, su commissione di Tommasina Guarmonti, moglie di Azzo d’Este. E’ questo nell’Italia settentrionale il più antico e meglio conservato apparato ligneo pergiunto ai nostri giorni. Nella chiesa dei Servi di Forlì, è ancora visibile il coro trecentesco, opera di maestranze anonime, che è da considerarsi il più antico coro di cui si conservi memoria presente in Romagna. Anche Parma, che fin dal XIII secolo è dotata di statuti che regolano la corporazione dei marangoni, è centro propulsore di arte lignaria fin da questo lontano periodo. A Imola, già nel 1272 nel Liber societatum civitatis Imole fra le 12 corporazioni citate compare anche la Magistri muri et Lignaminis. In Modena, negli Statuta Civitatis Mutimae del 1327, vi si trova la puntuale presenza della corporazione dei Magistri manarie lignaminis.
E’ quello delle corporazioni un momento fondamentale nella storia della formazione di un lessico autonomo, per tipologia, repertorio decorativo e tecnica di costruzioni in Emilia-Romagna. Formatesi sulla scia dei cosiddetti Collegia opificum di epoca romana, le corporazioni, tra il XII e il XV secolo, maturono autonomie, specializzazioni e regole consolidate che nel corso del Quattrocento saranno alla base della straordinaria stagione del “rinascimento” lignario.
Il Quattrocento
Nel Quattrocento, fenomeni congiunti di stabilizzazione socio-economica portarono al rifiorire delle attività commerciali e edilizie, contribuendo alla formazione di poli cittadini di portata significativa, come Ferrara, Bologna e Rimini, città la cui frequentazione di maestranze itineranti apportò interscambi artistico-culturali destinati a produrre effetti duraturi. La particolare posizione geografica regionale favoriva la ricezione di impulsi e tendenze sviluppatisi nelle aree limitrofe, quali il Veneto, la Lombardia e in modo particolare con la Toscana, che all’epoca fu una vera e propria fucina artistica.
Per quanto concerne la mobilia, questo secolo incentiva una straordinaria produzione legata al fenomeno del mecenatismo cortense favorito dai nuovi ideali estetici imperanti già nella prima metà del secolo. Illuminante, in tal senso, il cassone malatestiano oggi al City Art Museum di Saint Louis, che dimostra come l’arredo in questa fase sia mutuato da esperienze congiunte maturate in Veneto e in Toscana: gli intagli minuti di gusto tardogotico sono di palese ascendenza veneziana, mentre rosoni, bifore ad arco acuto, lesene, cornici con tarsia a toppo rimandano alla metrica architettonica fiorentina. Questo cassone traccia il cammino alla comprensione delle tipologie di arredi che Arduino da Baisio, Pantaleone De Marchi, Lorenzo e Cristoforo da Lendinara eseguirono alla corte estense, mobili il cui fasto non trovava precedenti con altre dimore principesche coeve. Probabilmente, spetta a Cristoforo e al figlio Bernardino Canozi il primo utilizzo in Ferrara dell’innovazione tecnica nella tarsia ottenuta con tintura del legno mediante bollitura, procedimento da loro inventato e applicato per la prima volta tra il 1462 e il 1469, nell’esecuzione del coro della Basilica del Santo a Padova. Prima, l’alternanza dei colori era ottenuta con impiego di legni chiari e scuri, mentre le ombre venivano rese annerendo il legno con un ferro rovente.
Dati documentali e arredi superstiti parrebbero nel loro insieme sottolineare come, nel suo primo delinearsi, la storia della mobilia in regione debba ascriversi al frutto di esperienze “importate” da maestranze esterne itineranti provenienti da centri come Firenze, Venezia e Milano, che in questa prima metà del secolo – in virtù di diverse vicende storiche e culturali – hanno già fortemente sviluppato un repertorio formale maturo e autonomo. In Emilia Romagna, il primo arredo nasce dall’intreccio combinato di queste tre direttrici: toscana, veneta e lombarda.
Sebbene in tono minore se rapportata a Ferrara, anche in Bologna non mancarono commissioni di rilievo: i due cassoni nuziali Bentivoglio, oggi nelle Collezioni d’Arte Comunali, da ascriversi alla bottega del De Marchi, la cui fama è ora affidata al coro della Cappella Maggiore di San Petronio, testimoniano la straordinaria vitalità e inventiva di queste maestranze itineranti ed è da ipotizzare che famiglie come i Sanuti e i Malvezzi, per abbellire le loro sontuose dimore ispirate ai canoni del Rinascimento, usufruissero di analoga mobilia. Verso la fine del Quattrocento è attivo a Bologna Giovanni da Baisio con la sua bottega, e certamente la presenza del celebre intarsiatore dovette molto inflluenzare gli artigiani operosi nella città felsinea.
La conoscenza parziale della mobilia ferrarese consente di tracciare un percorso di evoluzione stilemica che giunge fino alla soglia del secolo successivo: l’inventario del 1436 che precisa gli arredi del marchese Niccolò III d’Este e gli inventari che documentano le commissioni eseguite per Leonello e Borso d’Este per gli arredi delle delizie di Belriguardo e di Belfiore intorno alla metà del Quattrocento, forniscono notizie di cassoni in cipresso, armadi e credenze arricchite da intagli dorati munite di cerniere e serrature in argento e già compare descritta la cornice a specchiera. Nei decenni a seguire, decresce l’interesse per il gusto del gotico fiammeggiante, diminuì il gusto per l’ornato coloristico e per l’intaglio, utilizzato solo per decorazioni di rilievo marginale, e sempre con maggior successo si radicò il gusto per il commesso ligneo, che con giochi di tarsie abilmente connesse l’una all’altra simulavano effetti realistici e chiaroscurali che gareggiavano con la stesura pittorica. Arduino da Baisio inserisce negli arredi pannelli raffiguranti elementi naturalistici che trovano illustri paralleli e predecessori a Ferrara nell’arte della miniatura: a tutt’oggi è ancora celebre la Bibbia miniata di Borso d’Este. Contemporaneamente, i suoi allievi Lorenzo e Cristoforo Canozi da Lendinara, ricollegandosi a esperienze toscane, cominciano a sperimentare commessi intesi a ricreare effetti prospettici per rappresentare vedute ideate o metafisiche di città e paesaggi. Tra i maestri d’intarsio attivi a Ferrara negli anni Settanta compare anche fra Sebastiano da Rovigno, al quale spetta l’esecuzione del coro della chiesa di San Giorgio.
Gli inventari parlano anche di sedie snodabili, di panche sormontate da bancali in seta o lana fine ricamati con disegni forniti da artisti di corte come Cosmè Tura e Ercole Roberti.
Intorno agli anni Sessanta in regione si diffonde la moda di utilizzare la tornitura come elemento decorativo della mobilia.
Solo verso l’ultimo quarto del secolo, con Ercole I d’Este, si delineò un nuovo orientamento a scapito della decorazione a tarsia alla quale fu preferita la nuova tendenza che reintrodusse l’intaglio ispirato a tematiche desunte dal mondo greco-romano. Benché le fonti testimoniano di mobilia ancora con Ercole di tarsie su suoi tavoli eseguite con l’insegna del diamante, uno delle insegne care al duca. Tale indirizzo è da imputarsi a mode veneziane, città che con Ferrara aveva frequenti contatti, e che finì per imporre un repertorio figurativo che vide l’intaglio espresso con finezza quasi ellenistica, a riprodurre candelabre, serti di fiori, delfini, grottesche, cavalli marini, fino a interessare l’intera superficie della mobilia, conferendole un’intonazione fastosa e magniloquente.
Di questo universo raffinato e permeato di cultura umanistica, rimangono scarne tracce, fra cui il noto armadio da sinagoga, oggi a Parigi al Museo Jacquemart André, la celebre credenza intagliata e intarsiata alla certosina da Arduino da Baisio oggi al Metropolitan Museum di New York, a sei ante e ancora priva di cintura con cassetti, e una nutrita serie di eleganti cofanetti in pastiglia muschiata e dorata, destinati alle donne di corte e pochi altri manufatti di minor rilievo.
Inserita nella scia geopolitica estense Reggio Emilia ebbe in questo secolo una ricca produzione di sedie, sgabelli e forzieri e una singolare specializzazione nella costruzione di strumenti musicali ornati da commessi in osso, simili alla foggia ottenuta con la tarsia alla certosina e talvolta impreziositi dall’utilizzo del raro e pregiato ebano, giungendo a risultati paragonabili al decoro detto “alla damaschina”. A Piacenza, è attiva una vivale scuola lignaria: Domenico da Piacenza importerà la lezione dei Lendinara fino a Padova, ove esgue il coro di Santa Giustina, mentre Antonio Giolfino, fin dal secolo precedente è attivo a Verona, ove a lungo sarà attiva la sua progenie.
Il Cinquecento
Questo secolo mostra una mobilia regionale fortemente influenzata da elementi rinascimentali mutuati dal repertorio strutturale e iconografico toscano. Pare significativo notare che alla difficoltà nel reperire modelli di arredi emiliani cinquecenteschi corrisponda un altrettanto vasta produzione tradizionalmente attribuita a maestranze toscane: è verosimile che buona parte di questi mobili siano invece da ricondurre ad ambito emiliano-romagnolo. E’ importante sottolineare come verso la fine del secolo, trovi diffusione l’uso di impreziosire i mobili con lastronatura di radica, già applicabile in spessori di 3mm, grazie alla scoperta della sega meccanica che si ascrive alla città di Ratisbona. Tra le novità del tardo cinquecento si segnala il canterano, mutuato dalla sopraelevazione del cassone, mobile che presto la nuova tipologia relegherà alla pura funzione di arredo da parata. In questo secolo trova grande diffusione il tavolino a deschetto e la credenza sviluppa nel sottopiano una cintura munita di cassetti: quest’epoca, la credenza svolge più che altro la funzione di contenitore di argenterie e oggetti preziosi e di rado serve per riporre suppellettili da cucina. Altre innovazioni sono l’introduzione delle librerie e degli attaccapanni, seguiti dalla moda della specchiera che si è fortemente radicata rispetto ai pochi modelli documentabili nel Quattrocento.
Per quanto pertiene la mobilia ecclesiale, nella seconda metà del secolo, le norme di attuazione dei canoni tridentini come le notissime Instructiones di Carlo Borromeo, edite nel 1577 o nell’ambito prettamente emiliano il “Discorso intorno alle Immagini sacre e profane” del cardinale Gabriele Paleotti del 1582, investono di contenuti operativi le singole realtà parrocchiali, esitando nei fatti un rinnovamento degli arredi di vasta portata.
Bologna
Agli inizi del secolo la mobilia mantiene inalterati i tratti peculiari tipici dell’ultimo quarto del Quattrocento. Ma a partire dal secondo decennio, sopraggiungono le prime novità: Andrea Marchesi da Formigine si rese interprete di una svolta, abbandonando definitivamente nell’intaglio ogni formulazione tardo gotica, ancora in voga presso gli intagliatori attivi in regione: elaborò decori e proporzioni in chiave compiutamente umanistico-rinascimentale, restituita con finezza e improntata al naturalismo. Le tematiche care a Andrea da Formigine, elaborate nella sua affollata bottega, si ritrovano anche a secolo inoltrato in elaborazioni di maggior impegno plastico di impronta manierista, fra cui alcuni cassoni ascrivibili al bergamasco Alessandro Bigni, attivo a Bologna.
Nella città felsinea, dopo la cacciata dei Bentivoglio, si è radicato un gusto di estrazione borghese, che fino alla fine del secolo si esplica in formulazioni che privilegiano un arredo civile permeato da tratti rustici, una mobilia foggiata e improntata a una corposa volumetria scevra da ostentazioni di lusso, con paralleli che trovano riscontri negli arredi del nord Europa, dove prosperava una società mercantile e artigianale simile a quella bolognese. Ne consegue una tipizzazione quasi standardizzata che conferisce agli arredi locali caratteristiche stilemiche che si protrarranno prive di significative mutazioni quasi fino agli ultimi decenni del Seicento. Sono tavoli, credenze e piccoli arredi come i deschetti, di cui fra Damiano da Bergamo ancor oggi ci lascia testimonianza visiva in una tarsia su una porta della chiesa di San Domenico. Sarà sempre fra Damiano che in città realizza il celebre tavolo oggi a Palazzo Guicciardini a Firenze e donato appunto al Guicciardini in occasione delle sue nozze con Maria Saviati: per ricchezza e bellezza è tra i capolavori di ogni tempo. L’attività dello Zambelli in città, ove operò tra il 1528 e il 1549, esitò una sorta di rinnovamento della tecnica e del gusto della tarsia: la rigida dicromia derivata dall’uso dell’avorio e dell’ebano, gli intarsi geometrici alla certosina e l’imitazione dell’effetto del mosaico che caratterizzavano i lavori quattrocenteschi, vengono abbandonati in favore di scene realistiche, brani di vita cittadina, figure vivaci in movimento, nature morte, e in generale un piccolo mondo animato, pieno di poesia e di particolari attraenti e minuziosi, rappresentato con varietà di colori ottenuti con legni tinti, e ombreggiature verosimili per mezzo di una nuova tecnica.
La mobilia in questo periodo monta piani di notevole spessore contraddistinti da forti aggetti laterali, le formelle e le specchiature sono di forma rettangolare e solo nel secolo successivo accennano a smussarsi negli apici; le gambe sono a sezione quadrata negli esemplari di minor rilievo, tornite a boccia, a pilastrino, a vaso, a balaustra, a trottola nei modelli di maggior impegno, ove è possibile cogliere mutuazioni lombarde di ascendenza spagnoleggiante e altre di derivazione toscana. La decorazione è talvolta affidata a bulle in ottone, di varia forma, applicata a guarnire credenze, piattaie madie e arcili, un vezzo che trova particolari riscontri anche in Romagna. La sedia, il seggiolone e la poltrona, a Bologna come in tutta la regione, quando si presenta impreziosita da intagli e da cartelle sagomate è elemento che ne sottolinea la funzione da parata e spesso mutuano le forme da modelli veneto o lombardi, in consonanza alla moda spagnola, che in regione trova larga diffusione specialmente nella tinteggiatura a nero della mobilia.
Ferrara
La città estense apre il secolo con il matrimonio di Alfonso I d’Este con Lucrezia Borgia, avvenuto nel 1502. Ferrara è ormai una città che per fasti e ricchezza d’arredi è alla pari con le corti più raffinate dell’Italia settentrionale, come Mantova e Milano e la nuova coppia ducale trasforma il capoluogo estense in una vero e proprio cantiere d’arte. Lucrezia arriva a chiamare doratori fin dalla Spagna, e il nuovo look non risparmia nemmeno la cagnolina bretone della bella Borgia, costretta a indossare fibbia e catenella dorata. Gli stipettai e i marangoni di corte sono impegnati a realizzare tavolini da giochi con intarsi in ebano, tavoli con piani in commesso lapideo sono di gran moda, arredi muniti di maniglieria in oro, letti con colonne e intagli classicheggianti. Schiere di pittori impreziosiscono la mobilia ducale che si veste anche di borchie sempre dorate. Modena e Reggio Emilia, allora provincie estensi, offrono il loro contributo con produzione di mobilia intarsiata e la vicina Venezia non manca mai di influenzare l’arte ferrarese. Artisti come Michelangelo, Raffaello e Tiziano sono in stretto contatto con Lucrezia e Alfonso e in questi anni diverranno celebri in tutta Europa i camerini d’alabastro estensi, oggi perduti dopo l’incendio del 1634. In un primo tempo fu l’arte della tarsia a prevalere nelle decorazioni, e a Ferrara, nel 1506, gli intarsiatori, presenti in gran numero e consapevoli del rilievo del loro operato, rivolgono una supplica al Duca al fine di potersi separare dall’Arte dei marangoni, dotandosi di statuti autonomi: tale beneficio fu loro puntualmente concesso. Tra il 1515 e il 1520, si diffonde la moda di utilizzare piani di meschie di marmo arricchite da commessi lapidei, tanto apprezzati dal Cardinale Ippolito d’Este, fratello del duca Alfonso. Ercole II sposa nel 1528 Renata, nientedimeno che la figlia di re Luigi XII di Francia e una nuova ventata di mobilia ove ricorre con maggior diffusione l’intaglio e l’intarsio celebra in città l’avvento del manierismo. E’ questa l’epoca aurea di Ferrara, che emula sfarzi regali e raffinatezze alla cui esecuzione partecipa anche Benvenuto Cellini, presente in città, insieme al marangone-intagliatore Stefano Seghizzi, l’artefice in questi anni degli arredi di maggior impegno, sebbene anche Andrea Marocco, il vecchio Tusino, il Lovati e Giacomo da Lugo non sono da meno.
L’architettura ducale vede il fecondo apporto di Pirro Ligorio e sotto il profilo urbanistico è una città modello. Si diffonde la moda dello stipo-medagliere, delle librerie e di studioli portatili e scrittoi, oltre a tavoli appositamente realizzati per mostrare sul piano tappeti di pregiata esecuzione e a trespoli trattati a valenza scultorea; Ferrara eccelle anche nella produzione del cuoio impresso. Nel 1559, il nuovo duca Alfonso II conferma il timbro aulico della politica estense e l’arte della tarsia rifiorisce dopo decenni di quasi oblio grazie all’arte della bottega Cavazza e di Baldassarre da Mirandola e il gusto per la finzione scenica prelude ormai al barocco. Il matrimonio di Alfonso II con Barbara d’Austria si celebra nel 1565, con enorme sfarzo e meraviglia pubblica: ogni bottega d’arte cittadina prepara l’evento con somma cura, dissanguando le casse ducali. Dagli anni Sessanta si diffonde la doratura a foglia d’argento meccata e la mobilia è sovente laccata. Il linguaggio figurativo di questi anni è sempre più incline all’introduzione di motivi a grifi, grottesche, erme, palmette, cupidi, stilemi che orienteranno il manierismo verso la diffusione del magniloquente barocco. Il motivo “a ottagono” tanto caro al Ligorio veste anche gli arredi, come documentano le opere dell’ebanista Alessandro Milanato. Morta Barbara il duca si risposerà nel 1579 con Margherita Gonzaga e l’arte estense giungerà al suo culmine: raffinatezza rinascimentale e spirito d’inventiva si combineranno in tale armonia tanto da trovare difficilmente termine di paragone. Di questa splendida avventura artistica, terminata tragicamente nel 1598 con la devoluzione di Ferrara allo Stato Pontificio, ben poco è giunto fino a noi.
Parma e Piacenza
Parma, il cui ducato farnesiano risale al 1545, risente di un’agiatezza derivante dalla corte ducale e dalla ricca aristocrazia che determinò una ricca produzione di mobili che, in taluni casi, sviluppa tipologie decorative e strutturali del tutto indipendenti: il cassone, sostenuto da piedi o mensole inusualmente verticalizzati, presenta fronte bombata a valenza veneziana e apparati ornamentali ispirati al gusto archeologico di derivazione romana, ma interpretato con morbido plasticismo che rimanda a coevi esempi veneziani, montano su piedi a zampa di leone o a foglia d’acanto. Inoltre l’assiduo interscambio con le Fiandre, con cui i Farnese avevano intrecciato contatti e scambi, determinarono collegamenti di gusto oltralpe che si innesta a quello locale, con esiti che nel secolo successivo sfoceranno in elaborate scenografie barocche. Tra i marangoni-intagliatori che meglio esprimono il plasticismo scultoreo di gusto nordico è da segnalare la bottega dei Zucchi.
La committenza ecclesiastica nel Cinquecento vede artefici di primo piano operare in città: l’arte dell’intarsio prospettico, portata a esiti di grande rigore e raffinatezza dai Canozi, viene appresa e diffusa dai maestri locali, che danno vita a una prestigiosa tradizione. I Lendinara lavorano a Parma nel duomo, realizzando coro e sagrestia, mentre al solo Bernardino da Lendinara spetta l’esecuzione del coro del Battistero. Le tarsie della sacrestia del Consorziati in duomo vengono terminate e firmate da Luchino Bianchino, che inserisce vedute prospettiche di Parma entro le specchiature del celebre armadio, visibile a tutt’oggi. Al Bianchino si devono anche gli stalli del coro e il leggio dell’oratorio De Rossi. Marcantonio Zucchi è il parziale esecutore delle tarsie e degli intagli del coro di San Giovanni Evangelista, terminato nel 1534 da Francesco e Pasquale Testi, Pasquale è peraltro ricordato come intagliatore di mobili per il duca Ottavio Farnese. I parmensi Bartolomeo Spinelli e Giampietro Panbianchi sono autori del coro di San Sisto a Piacenza.
Reggio Emilia
Nella prima metà del secolo a Reggio ebbe a svilupparsi una singolare scuola di intarsio, ove divenne di gran moda l’utilizzo di tessere in osso. Grandemente apprezzata, questo particolare ornato decorativo ebbe in città artisti di rilievo, come Nicola Sanpolo e Ludovico da Reggio.
Carpi
In questo secolo anche Carpi si segnala come centro di importante vitalità, vi operano le botteghe dei Meloni e dei Papacini, che nell’arte dell’intaglio e della tarsia lasciano opere di significativo livello.
Il Seicento
Il repertorio rinascimentale lentamente si evolve in chiave manierista che nel Seicento apre la strada al Barocco che in Emilia Romagna raggiunge il suo apice tra gli anni Sessanta e Ottanta del secolo, vestendo d’oro la mobilia d’apparato. Grande influenza verrà esercitata dalla Roma papale, ove il gusto berniniano impone la nuova moda che nei casi di maggior decoro e ricchezza plastica assorbe anche la lezione spagnola, dove lo stile churrigueresco suggerisce decori che interessano ogni superficie del mobile. Solo verso gli ultimi anni del Seicento alle sfavillanti dorature a foglia si preferiranno le argentature a mecca, che nel loro caratteristico colore bruno ramato vivono un momento di grande auge.
Tra l’ottavo e il nono decennio del Seicento e fin oltre la metà del secolo successivo, si diffonde in regione la moda lombarda di ebanizzare i profili e le cornici della mobilia. Dalla seconda metà del secolo lo stile Barocco in regione spesso assume le forme della mobilia francese ispirata allo stile Luigi XIV, che sebbene sia fortemente connotato da valenze auliche e da parata, nei fatti contribuisce a contenere e a imbrigliare gli eccessi dettati dalla magniloquenza del gusto barocco. Solo negli anni Sessanta, pur conservando forme strutturalmente rigide, la mobilia adotta apparati decorativi di impronta propriamente barocca, sebbene ancora ispirata a repertori tardo manieristi ma trattati con intagli più accentuati, ricchi d’inventiva e citazioni naturalistiche. Il vocabolario barocco si esprime con volute dai fastigi intrecciati a fogliami, colonne tortili, pendoni di foglie e frutti, cariatidi scolpite a tutto tondo, pannelli a profilo mistilineo. Si distinguono, fra gli aderenti a questo movimento il maestro d’ascia di origine milanese Giovanni Battista Mascheroni, autore degli armadi della Sacrestia Nobile di Santa Maria della Steccata a Parma, capolavoro di mobilia ecclesiale barocca, eseguiti tra il 1665 e il 1670, Antonio Maria Bianzola, di cui si conserva un armadio proveniente dal Castello di Robecco, e ancora Lorenzo Aili, Francesco Perocchi e Giuseppe Bosi, che furono tra i principali esecutori dei principeschi arredi della Rocca di Soragna. Esiti che si approssimano alle opere di Andrea Fantoni e a quelle dello scultore cremonese Giacomo Bertesi, chiamato a Parma per allestire le sontuose carrozze che dovevano servire alle nozze di Odoardo Farnese con Sofia di Neuburg. Al suo lussureggiante barocco si ispirano alcune consoles intagliate e dorate presenti in varie collezioni private. In Emilia, il proliferante sviluppo delle volute e dei racemi floreali è profondamente influenzata dai disegni ornamentali di Stefano Orlandi.
Anche nelle altre città emiliane l’evoluzione del gusto fu lenta, e le concessioni al barocco riguardano solo gli elementi decorativi. A Bologna, i mobili continuarono a essere costruiti nelle forme che si erano affermate nel tardo Cinquecento, i canterani, ancora verso la fine del secolo, mantennero il primitivo carattere di sobrietà e di solidità, con la variazione degli ornati perimetrali che si traducono nell’adozione per le filettature del giallo angelino e di una massiccia adesione all’introduzione della formella bugnata, oltre al generale fenomeno di ridimensionamento volumetrico che interessa ogni tipologia di mobilia. A Seicento inoltrato, a differenza dei mobili chiesastici che già avevano aderito al barocco, in sincronia con il rinnovamento di alcuni palazzi patrizi, gli arredi da parata acquistarono un profilo sinuoso e ornamenti ispirati al gusto romano. Al tradizionale noce naturale o tinteggiato in nero si preferì il legno dorato, intagliato con effetti di turgida naturalezza.
La capitale felsinea in questo secolo si distingue anche per l’elevata qualificazione dei suoi “ottonari”, che pergiungono ad elevata specializzazione tecnico-stilistica. Nelle botteghe cittadine si fondono forniture metalliche come picchiotti, boccole, maniglie, borchie, ecc. che giungeranno a conquistare mercati anche extra regionali.
Il cassone, nella seconda metà del secolo, perde l’originaria funzione per trasformarsi in semplice mobilia da parata, diventando ornamento degli scaloni e dei grandiosi ingressi dei palazzi patrizi: il profilo dello schienale e della fascia acquista un andamento sinuoso, trasformandosi in cassapanca, dalle superfici spesso animate da vivaci policromie. Sempre per esigenze d’apparato, si diffonde la moda francese della consol, che a partire dalla seconda metà del secolo diventa sempre più frequente e che talvolta presenta elaborazioni così sfarzose e raffinate da poterne difficilmente distinguere il confine tra arte applicata o scultura vera e propria. Compare anche la scrivania, che negli anni Ottanta conosce notevole diffusione sviluppando tipologie dette alla “San Filippo” e alla “Cardinal Mazarino”. Il seggiolone nel Seicento subisce radicali modifiche: il sedile e lo schienale sono rivestiti in cuoio inciso o in stoffe pregiate, e i braccioli, precedentemente rigidi, si incurvano e terminano con riccioli molto pronunciati e intagliati. I tavoli e i deschi continuano a riproporre la struttura cinquecentesca, ma adottano pannelli centinati sulla fascia e sui cassetti e sotto la cintura compaiono talvolta grembiuline o mensole sagomate. Almeno fino alla metà del secolo, si accentua l’utilizzo di ornare la mobilia foggiata con borchie e guarnizioni in ottone. Il canterano, all’approssimarsi del secolo seguente in taluni casi si trasforma a parziale funzione di scrittoio, reso possibile dal piano parzialmente amovibile e dal cassetto di testa a calatoia, che ne svela il vano interno con cassettiera.
Parma e Piacenza
In città la mobilia si orienta sempre più verso connotazioni fiamminghe con decorazioni fitte e affollate, l’ebano è essenza lignea molto alla moda nel ducato farnesiano, gli inventari citano sedie in ebano con pomoli in ottone e tavolini di pero con piano in ebano, benché numerosi arredi venissero eseguiti in legno di poco pregio, in quanto destinati a essere coperti o tappezzati da ricchi tessuti che ne occultavano in gran parte le strutture. L’armadio, imponente e sfarzoso, si tinge di nero a imitazione dell’ebano, si innova montando uno o due cassetti nella fascia inferiore e il cappello si verticalizza in fastigi con fitti intrecci di decori a valenza vegetale, nelle pilastrate montano in intaglio figurazioni quasi a tutto tondo, simili alle erme scolpite dal borgognone Huges de Sambin che nel 1572 pubblica Ouvre de la diversité des Termes, destinata a contribuire grandemente alla diffusione delle cariatidi nella mobilia.
L’intaglio parmense si caratterizza rispetto alle mode lombarde o di derivazione spagnola-fiamminga per un plasticismo scultoreo trattato con intaglio più turgido e aggettante, il trapasso dal manierismo al barocco è meno lento rispetto ad altri centri; nelle città del ducato farnesiano si trova ancora mobilia a struttura architettonica rigida e definita, cui si sovrappone un ornato reso in modo già naturalistico. L’affermazione del Barocco investe dapprima Parma, poi si diffonde in Piacenza: la cantoria intagliata e dorata della chiesa di san Sisto, che data al 1689 ed è stata probabilmente eseguita su disegni del Mazzocchi, ne è felice testimonianza, sempre in San Sisto Giovanni Sete, intorno al 1697, orna di intagli dorati la fastosa cornice destinata a custodire il celebre dipinto di Raffaello, ora a Dresda. La presenza nel ducato dello scultore-intagliatore cremonese Giacomo Bertesi influenzò profondamente un’intera generazione di artisti che produrranno mobilia dal carattere riccamente decorativo e plastico, di ascendenza romano-bertesiana. Tuttavia, il mobile piacentino nel Seicento mantiene generalmente i connotati della mobilia periferica, che raramente è incline ad aggiornarsi verso le sollecitazioni dei vicini centri più alla moda. Persistono forme e dimensioni che fin quasi si manterranno inalterate oltre la metà del Settecento, con pannellature centrate da motivi a spizza ottagonale, riquadrate entro cornici modanate a forte aggetto, tanto nella fronte quanto nei fianchi. Tipicamente locale è l’adozione nelle pilastrate di fregi a forte intaglio plastico, risolti a pendoni floreali. Il piede nel mobile piacentino è solitamente di dimensioni contenute.
Reggio Emilia
A Reggio Emilia, il cassone perde la valenza aulica per assumere il carattere più sobrio del mobile d’uso, di solida carpenteria: si caratterizzano per la modestissima decorazione affidata a cornici modanate ad andamento mistilinea, motivo decorativo che a lungo “vestirà” l’arredo locale. A partire dalla seconda metà del secolo anche a Reggio si cominciano a sentire i benefici influssi del trasferimento della corte estense da Ferrara alla vicina Modena, che si traducono in una produzione di maggior interesse.
Carpi
Fin dagli anni Venti, in questo centro trova larga fortuna l’utilizzo della scagliola per ornare mobili e arredi ecclesiali. Dalla scuola del Fassi escono numerosi maestri che nel corso del secolo diffondono l’utilizzo di questa tecnica in modo particolare a Ferrara, a Bologna e a Ravenna, giungendo a esportare oltre regione i loro preziosi manufatti.
Modena
Gli inizi del secolo vedono a Modena la corte estense, con il duca Cesare esule nel 1598 da Ferrara, passata in drammatica devoluzione allo Stato Pontificio. Nella nuova sede estense, anche in fatto di mobilia, si era portato via da Ferrara quanto si era potuto. Dagli inventari ducali apprendiamo che oltre agli arredi tradizionali, nella prima metà del secolo compaiono nuove tipologie come tavolini in ebano incrostati in avorio e numerose credenze di dimensioni contenute, dette buffetti. Le maestranze di cui giunge memoria sono: l’ebanista Fra Bernardino Forte, l’intarsiatore Alessandro Guasconi e il reggiano Alessandro Vasconi, scultore su avorio, che intarsia con materiale eburneo uno scrigno in ebano, tutti attivi in commissioni ducali.
Con Francesco I, duca dal 1629 al 1658, la corte vive una stagione che per modernità e sfarzo sembra emulare i fasti ferraresi dei tempi ferraresi di Alfonso II. La mobilia assorbe influenze francesi, spagnole e in particolare risente delle novità romane: lo stesso Bernini, di passaggio a Modena, contribuirà direttamente a dare alla capitale ducale una svolta in chiave barocca.
A sottolineare il favore che lo stile barocco incontra presso gli Este, pare significativo che, tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, un’autentica schiera di doratori è impegnata a impreziosire gli arredi della nobiltà locale: Stefano Quirini, Alberto Campana, Paolo Vensani, Angelo Manzoli, Tommaso Panoni, Giovanni Fini, Sforza Campi, Giovanni Riccò, Antonio Migliani, Giacomo Barbanti, Pellegrino Trevisi, Ilario Barozzi e Sebastiano Caula, autore delle dorature nella lettiera detta di Faraone, che nel 1640 ricopre con ben 3.300 foglie d’oro e sempre il Caula, nel 1650 utilizza 1215 foglie d’oro per “vestire” la cornice contenente un ritratto della duchessa Vittoria.
Lo stipettaio-intagliatore autenticamente protagonista di questa fase stilistica è il sassuolese frate servita Carlo Guastucci, le cui opere sono spesso dorate dal suo collaboratore Bartolomeo Bratti. Il Guastucci, è autore oltre che di arredi lignei chiesastici e nobiliari, di un gran numero di importanti cornici destinate a ornare i dipinti della Quadreria Ducale, veri e propri capolavori del barocco emiliano.
Nella seconda parte del secolo, oltre al Guastucci che è operoso almeno fino al 1666, troviamo altri intagliatori-ebanisti attivi in commissioni ducali: nel 1674 Bartolomeo Bonvicini, nel 1690 Giuseppe Roduzzi e nel 1689 l’intagliatore Lorenzo Aili attivo a Parma e stipendiato dai Farnese, esegue per il principe Luigi d’Este una lettiera a intagli dorati.
Tra il 1680 e il 1690 ha bottega in città il veronese Benedetto Corberelli, specialista nel commesso in pietre dure, alla maniera fiorentina. E’ stipendiato dalla corte. Realizza, in collaborazione con l’ebanista Gherla con la sovrintendenza del pittore Francesco Stringa, alcuni medaglieri, tavolini e mobili d’esposizione, impreziositi da materiale in commesso lapideo, a testimonianza che il fascino esercitato da questa lavorazione toscana riesce talvolta a sostituire la tradizionale tecnica della meschia a scagliola, ormai fortemente radicata in Emilia.
A sottolineare come ancora in regione si continui a rivolgersi a maestranze straniere per l’esecuzione di arredi di particolare sontuosità, si pensi al canterano commissionato dal duca Francesco II a Venezia, e fatto eseguire nel 1690 dal celebre mobiliere-intarsiatore Zuane Sugioldi: si trattava di un canterano in ebano, con filettature, maniglie, boccole e chiavi in argento, preziosamente incrostato di madreperla, lapislazzuli e pietre dure e con pilastrate che montavano colonne a torciglione, dai capitelli e piedi argentei.
Il Settecento
Bologna
Con l’affermarsi dello stile Rococò, che in regione matura intorno alla metà del secolo, e che curiosamente viene detto “alla torinese”, influenze francesi e veneziane suggerirono l’adozione di proporzioni aggraziate e misure decisamente contenute. La diffusione della nuova moda trae in buona parte spunto dagli apporti di Giovan Battista Toselli, appunto reduce da un viaggio in Francia. Tali nuove ideazioni trovano come divulgatori Alfonso Torreggiani, Francesco Minozzi, Antonio Cartolari e Francesco Casalgrande. Tuttavia, alle dorature e alle lacche che altrove furoreggiavano, si preferì vestire la mobilia con radiche di rara e pregiata qualità, come il noce biondo, che nelle sue varietà più pregiate emula l’effetto della tartaruga. L’impiallacciatura, spesso delimitata da filetti in giallo angelino, sostituì l’ornamento a intaglio, demandato solo a vivacizzare la mobilia realizzata in massello. Di rado si usò arricchire gli arredi con applicazioni bronzee dorate alla moda francese. Il perdurare del gusto seicentesco anche a Settecento inoltrato, determinò di fatto nel bolognese una mobilia ove il gusto di tipica derivazione Luigi XIV lasciò traccia di sè nella valenza strutturale, che tuttavia venne mutata almeno nelle proporzioni, che si fecero più contenute e aggraziate, mentre le nuove mode rococò trovarono felice applicazione nelle parti destinate al decoro: l’intrecciarsi di questi due fattori stilemici apparentemente contrastanti diede vita a uno stile barocchetto che talvolta raggiunge esiti raffinati con artisti come i Toselli e i Cartolari, che meglio seppero interpretare la “vaghezza” delle nuove mode. Sebbene documentato anche nella prima parte del secolo, il trumeau trova maggior diffusione negli ultimi quarant’anni del Settecento. Di fatto, il petit meuble di gusto francese venne realizzato solo a partire dal settimo-ottavo decennio del secolo benché Bologna fosse la patria di Pier Jacopo Martello, un letterato che visse a lungo oltralpe e che scrisse il celebre Il vero parigino italiano, un testo che ebbe larga risonanza e che molto favorì in Italia il diffondersi dello stile rocaille.
Tra le nuove tipologie che si diffondono c’è il comodino, che talvolta presenta lo zoccolo inferiore sfilabile per consentirne la funzione a inginocchiatoio. La moda orientale in Bologna trova scarsa applicazione e si diffonde intorno agli anni Settanta.
Ferrara
Intorno al 1730-1740, la vicinanza con Venezia, che in quel momento era la città più moderna ed “europea”, contribuì a formare un singolare fenomeno artistico di eccezionale raffinatezza: i mobilieri locali interpretarono i modelli veneziani con una grande felicità d’invenzione e con un morbido e sciolto plasticismo, mediato da una diversa restituzione volumetrica, in maggior adesione al gusto emiliano, che tradizionalmente si mantenne meno leggiadro o capriccioso rispetto all’arredo francese o veneziano.
La presenza della dominazione pontificia ben si ravvisa anche nella mobilia settecentesca, per l’adozione di pilastrate ornate alla romana e per certe soluzioni strutturali, ma è questo un retaggio che meglio si percepisce per gli arredi aventi committenza ecclesiastica.
L’uso diffuso di radiche di noce di selezionata e pregiata varietà locale, crea effetti decorativi in perfetta simbiosi con il profilo modulato della struttura. Nei mobili di maggior pregio, le belle radiche venate furono utilizzate anche per creare le cornici sagomate degli zoccoli, delle calatoie, dei cappelli e finanche delle profilature di testa delle catene, queste ultime spesso sagomate “a coda di toro”. Ferrara sviluppa una singolare tipologia di scrittoi muniti di sopralzo a cassettiera, che non trova riscontro a livello regionale ma dove si ravvisano riferimenti francesi; in taluni casi questi esemplari sono di straordinaria bellezza formale. Tipicamente locale è il caratteristico piede a prosciutto, sovente “firmato” per la presenza di lati unghiati.
Soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, la mobilia presenta la fronte mossa da sagomature, a comporre la caratteristica foggia detta “a balestra”. Il trumeau, monta cimase che sempre mantengono un forte timpano verticalizzato, a ripetere motivi cari all’architettura locale. Benché influssi di mode francesi e veneziane risultino evidenti, molto di rado si notano nel ferrarese mobili arricchiti dall’uso di lacche e dorature.
Nell’arredo liturgico che lungo l’intero secolo raramente si concede apertamente a una chiara metrica rococò, preferendo espressioni piuttosto modulate dalle linee barocchette e talvolta di ispirazione romana, tra gli artefici di maggior spicco attivi in città è da segnalarsi l’intagliatore Antonio Cozzetti, monaco Domenicano, che nel 1739 realizza con gusto classicheggiante i rivestimenti lignei della Cappella Canani in San Domenico; da sottolineare anche la bottega dei fratelli Baseggi, il cui capolavoro è il coro della chiesa di San Giuseppe.
Parma e Piacenza
Il nuovo secolo si apre nel ducato farnesiamo ancora fortemente all’insegna della stagione barocca, e si colgono gli influssi della lezione di Giacomo Bertesi. Se ne ravvisano tracce significative nel soffitto della sala della Rocca di Soragna, intagliato nel 1701 da Giuseppe Bosi, nella cornice dell’altare della chiesa di san Fermo a Piacenza, eseguita da Odoardo Perfetti nel 1711 e nella mobilia ascritta allo stesso Bertesi e a quella ove si legge la mano di Bernardino Barca. Parma e Piacenza, a partire dal secondo quarto del secolo, ebbero fruttuose contaminazioni anche da Genova e da Torino, dove la lezione delle opere di Filippo Parodi trova notevoli riscontri e applicazioni locali. Nel 1748, l’arrivo dei Borbone nel ducato segnò l’inizio di un generalizzato fenomeno di innovazione delle residenze di corte. La presenza di mobilia francese trasferita per arredare i palazzi ducali, determinò anche nelle case dell’aristocrazia locale l’adozione di arredi con decorazioni a tarsia sovente impreziositi da guarnizioni bronzee dorate, e per gli esemplari di minor rilevanza il decoro è demandato all’intaglio a sgorbia che introduce specchiature a cartouches che si ispirano a modelli piemontesi e provenzali. Un nuovo mutamento di gusti coincide con la presenza della duchessa Louise Elisabeth, che dalla reggia di Versailles aveva derivato un gusto raffinato e incline alle novità alla moda di gusto rococò che tuttavia a Parma ebbe breve durata. Due figure furono determinanti alla realizzazione di un nuovo e ambizioso progetto di riordino: il ministro Du Tillot, sostenitore delle più moderne teorie illuministe e collezionista di gusto raffinato e di Ennemond Petitot, decoratore e architetto tra i più fervidi sostenitori dell’antichità classica e rinascimentale, le cui innovazioni determinarono un definitivo allontanamento dal gusto rocaille, sottolineandone il ruolo di antesignano precursore del neoclassicismo emiliano. Le tavole della Mascarade à la Grécque e della Suite de vases saranno la fonte d’ispirazioni delle nuove generazioni di decoratori, stuccatori, ornatisti e intagliatori. Ebanisti come i francesi Michel Poncet e Marc Vibert, il fiammingo Michiel Drugman e intagliatori di corte come Ignazio Marchetti e Odoardo Panini operano alle dipendenze del Petitot, che nel parmense per primo introduce elementi ornamentali come teste d’ariete, corone d’alloro, figure alate, greche, ghirlande. Celebri saranno gli arredi eseguiti nella reggia di Colorno, ora dispersi. Tra il 1766 e il 1768 vengono realizzate le scaffalature della Biblioteca Palatina, una delle poche realizzazioni ispirate a progetti del Petitot ancora in situ, insieme agli arredi della chiesa di San Liborio a Colorno. Il Marchetti, intagliatore di corte fin dal 1769, esegue numerose opere di rilievo nelle chiese parmensi, rinomata testimonianza ne è l’oratorio De Rossi in San Quintino. Odoardo Panini occupa un posto di primo piano fin quasi alla fine del secolo: a lui sono da ascriversi l’ancona e l’altare eseguiti in San Pietro, le cantorie e l’organo in Santa Croce, che datano al 1785, i candelieri, vasi e pulpito per la Madonna della Steccata, le placche portacero (su disegni del Callani) per la cattedrale.
Tipica nella mobilia parmense è l’adozione di una forma ornamentale che è da ritenersi come una vera e propria “firma”: motivi “a cartella” applicati o più spesso intagliati a sgorbia sul legno massello, che entrarono anche in gran numero nelle case della borghesia locale.
L’elevato livello qualitativo e formale che contraddistingue la produzione del secondo settecento, trae origine anche dalla costituzione, nel 1765, della Scuola di Disegno e Architettura, la cui frequenza era obbligatoria per coloro che volevano essere iscritti all’Arte: si formarono così nuove generazioni di ebanisti altamente qualificati.
A Piacenza, al contrario, il gusto rocaille avrà lunga applicazione, con un’ornamentazione raramente trattata a sgorbia su massello. I mobilieri locali, fra i più noti si ricordano Pietro Canavesi e Luigi Cardinali, si specializzano in una produzione eseguita a commesso ligneo, con intarsi a disegno esile e diradato, svolto ritmicamente intrecciando forme vegetali a elementi nastriformi con un eleganza ancora affina al gusto barocchetto. Nella produzione piacentina della prima metà del secolo sono caratteristici gli armadi di struttura massiccia, ornati di riquadri e ricchi di fregi, tipiche anche le panche da anticamera, sovente decorate con pitture a carattere illusionistico. In seguito, Piacenza è dapprima contaminata dalle vicine realizzazioni di ebanisti piemontesi e lombardi e nella fase neoclassica si esprime con repertori decorativi mutuati dalla lezione del Maggiolini, trattati sovente con rigore geometrico e con mobili di dimensioni particolarmente contenute se rapportate alle produzioni limitrofe.
Modena
Vicende belliche e la naturale austerità del duca Rinaldo d’Este non furono certo un connubio vincente per favorire il diffondersi di tipologie d’arredo di particolare sfarzo. Solo il matrimonio del figlio Francesco con Carlotta Aglae d’Orleans, abituata alla vita di corta parigina, portò nel ducato una qualche ventata di novità, che si concretizzò con la costruzione della grande villa di Rivalta, concepita su modello di quella di Versailles. In questo cimento troviamo attivi il Torreggiani, e i molti, intagliatori come Giovanni Piò e Silvestro Giannotti. Con lo stile Luigi XV e l’imperante uso della lastronatura in radica, nel mobile locale spesso si ricorre all’utilizzo della radica di pioppo per i fondi delle specchiature. Le ribalte locali spesso presentano il vano superiore con i fianchi che si incurvano stringendosi verso l’alto e solitamente montano piedini di misure contenute. Emblema modenese è la cartella a blasone con ali laterali molto sagomate e allungate. Verso la fine del secolo la moda francesizzata della vicina Parma non manca di influenzare l’arredo cittadino che negli arredi a boiseries realizzate intorno agli anni Quaranta da Antonio Salvatori per il Gabinetto d’Oro del Palazzo Ducale trova formulazioni già precocemente aveva accolto le tendenze del Rococò, in quest’occasione, per conto del nuovo duca Francesco III, lavorarono anche ebanisti di rilievo, come Bartolomeo Battaglioli e Antonio Cavana.
Con il neoclassicismo molta della mobilia cittadina si presenta nella veste laccata e dorata e l’ideatore d’arredi Giuseppe Soli è personalità di rilievo in Modena per la spinta al rinnovamento Neoclassico.
Reggio Emilia
Verso gli anni Settanta del secolo, nella bassa reggiana a Rolo si sviluppa una fiorente produzione di mobilia di stile Luigi XVI e Neoclassico. L’influsso della moda della tarsia “alla Maggiolini” è qui colto con grande favore e in breve il centro sarà in grado di esportare mobilia anche di significativo livello: il mobile rolino è acquistato abitualmente a Modena, Bologna e ben presto anche oltre i ristretti confini regionali. Nel 1777 si contano almeno dieci botteghe attive e variamente specializzate.
L’Ottocento
Bologna
La città felsinea, con l’orientamento di Felice Giani e di Antonio Basoli, matura nell’arredo un repertorio improntato al gusto neoclassico e rinascimentale. Indirizzo che seguì anche nei suoi arredi l’architetto Pelagio Palagi, differenziandosi da Luigi Moglia e da Giuseppe Borsato, fautori di un’intonazione di stampo borghese e inclini al gusto biedermeier di ispirazione austriaca. Il Palagi è artefice di mobilia che esalta l’aulica fastosità dello stile impero, con innovazioni spesso desunte dal repertorio etrusco.
Parma Piacenza e Guastalla
Dal 1814 Maria Luisa provvede al ripristino della reggia introducendo negli arredi di gusto francese, laccati e dorati, una nota di borghese semplicità. I motivi a grifoni, cigni e cornucopie impiegati per i sostegni dei mobili passano nel mobile d’uso parmense caratterizzandone la tipologia per lungo tempo. All’interesse per l’antichità proposto dal Petitot nel Settecento si rifaranno ancora architetti come Annibale Bettoia e Paolo Gazzola quando, nel quarto decennio, curarono per Maria Luigia il riordino degli appartamenti ducali, i cui arredi furono eseguiti dagli ebanisti Guglielmo e Massimo Drugman, Ezechiele Abbate, Antonio Bosio, Pietro Canavesi e Giuseppe Musini.
A Piacenza, la vicinanza con Cremona favorisce il diffondersi dell’intaglio: in città è attivo Luciano Pezzoni, ebanista di talento che ancora nel 1820 esegue mobilia ispirata allo stile Impero, felicemente intarsiata da preziose vedute ideate eseguite a tarsia, di gusto neoclassico.
Modena
Con la Restaurazione, in città la mobilia si orienta verso dimensioni più consistenti e massicce, quasi sempre di gusto fine e moderato. Fino al 1860, anno in cui Modena entra a far parte dell’Italia unitaria, la mobilia non presenta connotati ancora contaminati dall’imperante gusto eclettico. Nel 1876 si distingue in città anche Lampridio Giovanardi, che esegue un tavolo di fine fattura con il piano impreziosito da quattromila personaggi legati alla storia d’Italia.
Faenza
Nel centro romagnolo persiste l’influsso neoclassico tutt’altro che provinciale, ispirato alla lezione di Felice Giani, che in Palazzo Milzetti affresca la Sala delle Feste, con la mobilia sempre progettata dal Giani ed eseguita da Giovanni Mingozzi e da Giuseppe Casalini. A partire dagli anni Venti, con il progressivo decadere dello stile impero, la tarsia in Faenza conobbe momenti di grande fortuna e prestigio. Nella bottega del Mingozzi si maturò una specializzazione che vide il commesso di acero e avorio su fondo di noce scura che per virtuosità tecnica ed eleganza grafica si avvicina al movimento preraffaellita, che aveva riscoperto il valore per i primitivi e per la tarsia rinascimentale.
Raffaele Bucci e Giovanni Battista Gatti detto “Il Giove della tarsia” arricchirono talvolta la tarsia con materiali come la madreperla, l’avorio, la tartaruga e altri metalli con esiti di particolare ricchezza cromatica, affini a quelli che a Firenze produssero i fratelli Falcini. Antonio Liverani è decoratore e ideatore d’arredi che contribuisce a diffondere il gusto Restaurazione in Faenza.
Il Novecento
Dopo il 1870, con l’unità d’Italia, le caratteristiche regionali andarono sempre più affievolendosi per essere assorbite da quel generale processo di eclettismo che investì la mobilia fin dagli anni Sessanta del secolo decimonono. Verso la fine dell’Ottocento e a lungo nel nostro secolo, lo stile Liberty nelle sue varie componenti lessicali ebbe nella mobilia pochi influssi originali e di reale interesse, a differenza del notevole apporto che diede alla produzione grafica e alle arti decorative in generale.
Lo stesso movimento bolognese “Emilia Ars”, fondato nel 1898 da un gruppo di mecenati e di artisti sull’esempio inglese delle Arts and Crafts, accostò elementi eclettici ripresi da modelli storicistici a suggestioni Art Nouveau nell’ambiguo desiderio di essere moderno pur senza rinunciare alla continuità di una tradizione degna di nota. Dei mobili presentati dall’associazione bolognese alla mostra di Torino del 1902, l’esuberante decorazione floreale eseguita da Vittorio Fiori è trattenuta entro rigide metriche di ascendenza neorinascimentale. A Villa Leonardi di San Domenico presso Modena, gli arredi la cui esecuzione risale al 1911, offrono, per sobrietà compositiva e accuratezza esecutiva, interessanti assonanze con i modelli della Secessione viennese.