La tecnica dell’Affresco
Fonte: testi: S. Baroni – Redazione Sacrum Luce
pubblicato il 30 novembre, 1999
La Storia
Affresco è un termine che deriva dall’espressione “a fresco” e fa riferimento alla pittura murale: si tratta di un opera dipinta, appunto, su una superficie ancora “fresca”, umida di calce e sabbia con colori di costituzione terrosa, in modo rapido e in ogni caso prima che la superficie preparata si sia seccata. La caratteristica dell’affresco infatti è data dalla reazione chimica che avviene tra la calce spenta, presente nell’intonaco, e l’anidride carbonica dell’atmosfera; da tale reazione si origina una pellicola di carbonato di calcio che esplica la funzione di legante fissando stabilmente i colori.
L’ antichità
La pittura murale si può ritenere antica quanto l’architettura. Nelle antiche civiltà editerranee, si adoperarono sistemi di pittura sul muro ancora umido, sebbene i metodi di preparazione del muro stesso sembrano diversi da quelli adottati poi nella pratica dell’affresco vera e propria. Incerta per la perdita di esempi, è la situazione per quanto riguarda la Grecia.
I procedimenti tecnici rilevati dagli archeologi sui resti più antichi si possono ricondurre a due pratiche principali: stuccare le congiunzioni delle pietre ed ogni irregolarità che potesse nuocere alla continuità delle tinte, quindi stendere un fondo regolare di calce per accogliere il disegno improvvisato sulla parete o, come si è notato in qualche pittura egiziana, reticolato da un modello preparato.
L’ affresco romano
La tecnica dell’affresco si stabilizza e si diffonde in Etruria e a Roma; preziose notizie ci provengono da Vitruvio e da Plinio che indicano il metodo per ottenere un bell’intonaco: nel suo trattato “De Architectura”, scritto probabilmente tra l’epoca di Cesare e quella di Augusto,
Vitruvio fornisce informazioni dettagliate sul modo di preparare la parete, per la quale prescrive un triplice strato d arriccio ed un triplice strato d intonaco e fa capire con chiarezza di conoscere le proprietà dell’intonaco fresco nel fissare i colori: “I colori messi sopra gli intonaci non bene asciutti a causa di ciò non se ne vanno, ma restano fermati”. In questa semplice osservazione è contenuto il principio base di tale genere di esecuzione che i latini chiamavano “udo tectorio”, cioè “a umido”: i pigmenti distesi sull’intonaco appena applicato alla parete e non ancora seccato vi rimangono infatti fissati per effetto dell’indurimento e della carbonatazione della calce.
Dalle fonti e dall’osservazione archeologica risulta che un intonaco romano è costituito generalmente da due strati ben distinti, che possono essere formati, ciascuno, da numerose stesure sovrapposte, fino ad uno spessore complessivo di 8-12 cm.Ogni stesura veniva applicata quando la malta era ancora umida, cioè cominciava appena a fare presa, se invece era già asciutta veniva picchiettata per far aggrappare la nuova malta.L’esecuzione di un affresco romano nella tarda repubblica e in epoca imperiale era condotta da due figure distinte di artisti: il decoratore, “tector albarius”, applicava l’intonaco, stendeva le campiture di base, eseguiva le decorazioni più semplici con motivi ripetuti e dipingeva le decorazioni architettoniche; il “pictor imaginarius” completava la pittura con le scene figurate.
L’ alto medioevo
La tecnica dell’affresco si trasmette da quella romana alla civiltà medioevale senza che avvengano sostanziali modificazioni nei procedimenti operativi; in età paleocristiana e nell’Alto Medioevo si ha solamente una riduzione di numero e spessore negli strati preparatori.
Si usava dipingere con rapidità; le linee di congiunzione delle zone di affresco seguivano l’andamento orizzontale dei ponti; si preparava quindi quanto stava a livello dell’impalcatura e, segnati i contorni con ocra rossa, si davano i colori generali.
Si terminava, infine, definendo ombre, luci, particolari, usando talvolta, quando l’intonaco si era ormai seccato, i colori a calce.
Certamente già alla fine dell’epoca classica un altro pratico genere di pittura si era diffuso per opere decorative e compendiarie. Sull’intonaco secco o ancor fresco, si stendevano più mani di calce, come un imbiancatura; su di essa poi si dipingeva con colori diluiti in acqua e forse, secondo il caso, in deboli soluzioni collanti. Talvolta alcuni colori ricevevano anche modiche addizioni di calce, così da rimanere meglio fissati e forti nell’adesione al supporto.
Questa tecnica, largamente usata nella pittura delle catacombe e paleocristiana, passò quasi inalterata al Medioevo, ovviamente con le varianti generatesi in differenti regioni, per l’uso di materiali e pigmenti diversi e per singole operatività e tradizioni delle varie maestranze.
Nel suo trattato “Diversarum Artium Schedula”, l’anonimo monaco nascosto sotto lo pseudonimo grecizzante di Teofilo descrive un metodo di pittura derivante da queste remote pratiche, che troverà larga diffusione nella pittura romanica europea: consiste nel bagnare l’intonaco di calce e sabbia già secco e stendervi una mano di calce, quindi dipingervi mentre è così bagnato con colori diluiti in acqua di calce.
Gran parte delle pitture murali medioevali, fino a tutto il XIII secolo, sono eseguite sostanzialmente in questo modo; nella decorazione murale tale tecnica, detta pittura alla calce, simile all’affresco nel risultato finale, avrà vita ininterrotta fino al principio del XX secolo.
La tecnica bizantina
La tecnica bizantina risulta più accurata per ciò che concerne la preparazione del supporto: lo strato preparatorio è più profondo ed è spesso possibile distinguere tra arriccio più grossolano e l’intonaco (detto intonachino). I maestri lavorano con vari aiuti, secondo modelli ed iconografie prestabilite; l’artista bizantino segue un ordine fisso nell’eseguire il dipinto, definendo prima con strumenti appositi le proporzioni, poi stendendo il disegno preparatorio e applicando i colori di fondo e finendo con il segnare i tratti specifici, le luci e le ombre. Ne risulta una pittura a tratti lineari, a contrasto di colori e marcata distinzione di toni (si usavano colori misti a calce o gesso).
Il romanico
La pittura preromanica e romanica occidentale presenta caratteristiche tecniche abbastanza simili a quella bizantina. Più libero e d invenzione era il disegno preparatorio in ocra (come mostrano i numerosi ripensamenti): esso risulta spesso meglio conservato proprio perché eseguito sull’intonaco fresco, mentre il compimento avveniva a calce. Ci si poteva aiutare, specie per i colori che tollerano male la calce, con leganti aggiuntivi quali, ad esempio, colla, latte o albume.Tra il Due e Trecento si assiste, in Italia, alla diffusione della decorazione ad affresco, legata ad una fase di sperimentazione. Le nuove esigenze della rappresentazione e della ricerca stilistica determinano sostanziali innovazioni nell’esecuzione: l’uso della sinopia (ossia il disegno preparatorio sull’arriccio) e il procedere per “giornate” nell’applicare l’intonaco e stendere i colori.
Proprio mentre la raffinata tecnica classica sembrava ormai scomparsa definitivamente dal mondo mediterraneo, un vasto movimento antichizzante portò a quel rinnovamento per cui l’Italia vide l’inizio di un corso artistico che l’avrebbe sostanzialmente differenziata per buon tempo dal resto d Europa.
Tali tendenze naturalmente influenzarono gli aspetti tecnici:riportarono in auge procedure quasi dimenticate, riscoprirono le antiche, interpretandole, modificandole fino a crearne quasi delle nuove: causa, espressione e conseguenza della nuova arte e della nuova pittura.
Proprio a Roma, dove si vedevano ancora nelle basiliche antiche rappresentazioni e raffigurazioni in pitture murali che risalivano alla chiesa primitiva, prima della cattività avignonense fu avviato il poderoso revival antichizzante che si espresse in cicli pittorici in parte perduti o ricordati solo da memorie letterarie. Di tali opere gli affreschi del Sancta Sanctorum, resi recentemente fruibili, rappresentano una importantissima, unica testimonianza.
In tale clima di risvegliato interesse per l’antico sono da collocare anche le grandi imprese a mosaico della fine del XIII secolo: spesso dovute a maestranze formatisi a Bisanzio (laddove si credeva che il “classico” non fosse mai venuto meno), queste opere non mancarono di dare un contributo determinante al successivo sviluppo della pittura “a buon fresco”. Fu infatti al principio del XIV secolo, in Italia centrale, che divenne una pratica comune intonacare i muri da decorare pittoricamente un po per volta, a piccoli pezzi, e dipingere così nell’intonaco fresco con i colori stemperati semplicemente in acqua, lasciando che la calce del muro intonacato agisse come legante per il colore.
Questo metodo di lavoro ad affresco derivava quasi certamente dalla tecnica di decorazione a mosaico diretto, in cui era necessario stendere il cemento che doveva ricevere le tessere colorate, a pezzi, in piccole porzioni per volta, così che non si stabilisse o seccasse prima che le tessere fossero collocate al loro posto. Il pittore di mosaici lisciava la sua superficie muraria tanto quanto necessario con un intonaco grezzo e tracciava il proprio disegno con terra rossa sulla superficie di questo intonaco. Poi, man mano che lavorava, copriva una parte del disegno con una porzione di intonaco e, guidato dalle linee di contorno, inseriva le tessere di pietre o smalti colorati o dorati che dovevano formare il dipinto.
Molti pittori in Italia, alla fine del XIII secolo, erano cresciuti nella tradizione della pittura a mosaico oppure erano al corrente di questo procedere artistico. Così all’inizio del XIV secolo fu facile per loro convertirsi naturalmente alla pratica di dipingere a pennello, pezzo per pezzo, e condurre il lavoro sull’intonaco fresco .
Come nella pittura a mosaico, così pure nell’autentico affresco trecentesco, l’artista disegnava il proprio lavoro a piena misura sulla base dell’intonaco grezzo, con terre rosse o ocre, e ne copriva con l’intonaco fresco solo quel tanto che sperava essere in grado di finire in giornata.
Tagliava poi con la cazzuola la cima di ogni sezione, una volta finita, e congiungeva l’aggiunta di intonaco nuovo in modo preciso sotto la cima tagliata del lavoro del giorno precedente.
Tali pratiche erano richieste da un procedere più meditato e lento, dovuto ad una nuova libertà tematica e figurativa e ad un accresciuto valore plastico e spaziale;
i primi esempi del procedere “a giornate” li troviamo nella Crocifissione della sala Capitolare di S. Domenico, a Pistoia , probabilmente della seconda metà del Duecento e di cui rimane la sinopia, e nelle Storie del Vecchio e Nuovo Testamento, nella Basilica superiore di Assisi.
Proprio mentre la nuova tecnica stava prendendo corpo, il grande cantiere umbro si offrì come il luogo dove le varie esperienze ebbero modo di incontrarsi e coagularsi in un unica maniera, destinata ad avere grande fortuna, veicolata da una importante bottega e poi dalla diaspora degli artisti che vi lavorarono.
La Basilica di S. Francesco ad Assisi fu per alcuni decenni il teatro dell’attività di artisti di svariata provenienza; di maestri non italiani, di Cimabue e della sua bottega, di pittori romani succeduti a Cimabue nella navata della Chiesa Superiore, dove generalmente è indicata la prima comparsa di Giotto , in seguito attivo anche nella Chiesa Inferiore, assieme ai maestri della propria bottega, a svariati collaboratori umbri e ai senesi Pietro Lorenzetti e Simone Martini.
Da Roma, ma soprattutto da Assisi vediamo la nuova pittura espandersi per tutta la penisola: a Siena, a Pisa e in tutta la Toscana, in Lombardia e a Napoli. La conoscenza della pittura giottesca nelle diverse regioni d Italia fu la conseguenza della prolifica attività imprenditoriale del pittore fiorentino nei diversi centri: dopo Assisi, a Padova, Rimini, Napoli e, da ultimo, in Lombardia.
Tuttavia il diffondersi della tecnica di tradizione giottesca, non fu così lineare e semplice: in molte regioni, tradizioni specifiche, reperibilità di materiali, qualità di calci e sabbie, gusti pittorici, contribuirono grandemente a formare
varianti e modi di operare che rendono abbastanza diverse tra loro, anche da un punto di vista tecnico oltre che stilistico, le applicazioni del principio del cosiddetto “buon fresco” di marca toscana.
Così le condizioni geografiche e storiche che determinarono varie “regioni” in senso storico-artistico, non mancarono di sviluppare diverse “tradizioni tecniche” di pittura murale: piccole variazioni, modeste finiture, dettagli che nel loro complesso contribuiscono però in maniera determinante a caratterizzare l’aspetto della pittura o comunque a mutare il processo di esecuzione.
Certo già la pittura “a buon fresco”, stemperando i colori in sola acqua e lavorando sulla carbonatazione dell’intonaco, lasciava aperta la possibilità di una serie di finiture necessarie ad esempio per mascherare i giunti delle giornate di lavoro, oppure di stendere una ricca serie di pigmenti che non avrebbero resistito alla causticità dell’intonaco umido. Queste potevano essere seguite, secondo i casi, in vario modo, in un secondo tempo a tempera o anche con pigmenti stemperati in acqua di calce o più raramente ad olio.
La tecnica del “buon fresco” verrà messa a punto proprio da Giotto e dalla sua scuola, sia nella preparazione sia nell’esecuzione pittorica, secondo le seguenti fasi: preparazione dell’arriccio, esecuzione della sinopia, stesura a fresco dei colori e rifinitura a tempera.
Troviamo una prima ampia trattazione sull’affresco nel Libro dell’arte di Cennino Cennini (fine sec. XIV, cap. LXVII) il quale considera il “lavorare in muro… l’più dolce e l’più vago lavorare che sia” e fornisce tutte le indicazioni necessarie, dalla preparazione del muro alla stesura dei colori, ai pennelli da preferire, rivelando una precisa e diretta conoscenza dei problemi inerenti tale tecnica.
Col suo Libro Cennino vuole offrire un trattato d istruzione, di accesso all’Arte, cioè alla Corporazione, al mestiere di pittore, un opera infondo divulgativa, come altre ve n erano per le singole arti. Le sue descrizioni perciò vogliono riproporre la purezza di un metodo e di una tecnica, facendole risalire al “gran Maestro” Giotto, operante però cent anni prima. Di fronte a Cennino sta però la pittura di primo quattrocento, ormai lontana dalla tecnica del capostipite e incline ad accogliere anche le complesse finiture tardogotiche e altre “degenerazioni”, opera di “quelli che sanno poco dell’arte”. Proprio per questo egli scrive della più rigorosa tecnica a buon fresco, che era stata modello ideale dei pittori trecenteschi ma non sempre fedelmente seguita ed eseguita nella pratica.
Il Rinascimento
Tra la fine del Trecento e il Quattrocento la necessità di realizzare la rappresentazione seguendo la costruzione prospettica (che non permetteva variazioni improvvise) e l’estrema attenzione data ad ogni particolare, segnano il progressivo scomparire della sinopia come progettazione sul luogo dell’affresco.
Nel Quattrocento vediamo alternarsi modalità di esecuzione che fanno maggiore o minore uso di finiture a secco. Già Giotto e i suoi collaboratori toscani, si giovarono in molti casi di tempere ausiliarie: il dipinto veniva eseguito a fresco in giornate progressive di lavoro, tuttavia nei passaggi tra maestro e aiuti, oppure in casi dove le giornate risultano particolarmente estese, era frequente l’uso di tempere ausiliarie, destinate a coadiuvare una non piena carbonatazione dell’intonaco, troppo “stanco” e già “passato” per una esecuzione con sola acqua.
Anche altri grandi pittori trecenteschi, come Simone Martini e il cosiddetto Maestro del Trionfo della Morte del Camposanto di Pisa, avrebbero spesso usato questo espediente.
Nel tempo il gusto di tali finiture crebbe soprattutto in quei pittori influenzati da correnti gotiche, amanti di superfici dai preziosi effetti materici, dove parti lucide si contrapponevano a fondi vellutati, e oro e metalli applicati a lamina si stagliavano su opacissime azzurriti stese a colla.
Verso la fine del Trecento l’alta Italia era dominata da pittori specializzati nell’esecuzione di splendide e ricche finiture, talvolta trasposte da tecniche proprie della miniatura, talvolta recuperate dall’intramontabile prassi della pittura a calce .
È difficile oggi rendersi conto di quanto fossero diffuse ed ampie queste rielaborazioni, perché in pochi dipinti esse sono sopravvissute alle ingiurie del tempo e ai lavaggi dei restauratori che cercavano “il buon fresco”.
Nel Quattrocento, mentre ancora si realizzano vaste decorazioni con pittura alla calce, quasi sempre legate a ornamentazioni architettoniche di ampio respiro, possiamo assistere a momenti successivi e contrapposti in cui si osserva l’alternarsi di decorazioni eseguite prevalentemente a “buon fresco”, con i colori stesi e diluiti ad acqua, a pitture dove la parte ad affresco è minimale ed anzi sembra soccombere alla ridondanza delle finiture a secco.
La sostituzione della sinopia, già nella prima metà del Quattrocento, con il disegno diretto eseguito su cartoni e riportato sul muro mediante spolvero verrà largamente praticato nel Cinquecento per l’esigenza di eseguire un disegno più elaborato, in modo da poterne affidare ad altri il riporto e talvolta anche l’esecuzione.
Tale procedimento fu gradualmente sostituito dal riporto del disegno sul muro a ricalco, cioè tramite una punta che lascia sull’intonaco il segno delle linee di contorno delle figure. Questa tecnica eliminò completamente, nel Cinquecento, l’uso della sinopia e restò il procedimento più comunemente usato fino al Settecento.
Un ulteriore semplificazione – e, allo stesso tempo, perfezionamento – della tecnica del riporto di figure a grandezza naturale o in scala, è data dall’introduzione del sistema della quadrettatura (sfruttato soprattutto nel Cinquecento, per esempio da Raffaello) che offriva la possibilità di affidare totalmente l’esecuzione dell’affresco ad allievi e aiuti . Nel Cinquecento, mentre da una parte si rafforza il mito dell’affresco, dall’altra vediamo sempre più allargarsi la superficie delle giornate con conseguente uso di tempere, colle, e calce additiva ai pigmenti.
Le grandi imprese decorative degli allievi di Raffaello mal si applicano alla rigida esecuzione per piccole giornate di stesure di pigmenti stemperati in acqua; si recuperano quindi le tecniche di decorazione architettonica alla calce e si innestano sulla tradizione della pittura ad umido, ottenendo risultati straordinari.
Alla metà del secolo Vasari scrive un incondizionato elogio della pittura a fresco pur notando come sia comune vederlo “ritoccato a secco con colori con colla di cannicci o rosso d uovo o gomma dragante, come fanno molti pittori”.
Per gli artisti del tardo Cinquecento e del Seicento, le imprese spesso si misurano per superficie e tutto diventa funzionale ad una tecnica buona, di sicuro effetto, ma pure pratica e sbrigativa nell’esecuzione: non c è più tempo per le elaborate e minuziose giunture di intonaci della pittura trecentesca; pitture alla calce su intonaci umidi, tagliati in vaste giornate dominano incontrastate.
L’ età moderna
Con i Carracci, che adottano una più ricca gamma di pigmenti, si definisce la pratica dell’affresco barocco. I procedimenti non cambiano sostanzialmente da quelli dei secoli precedenti, se non nella ricerca di accorgimenti volti a soddisfare nuove esigenze estetiche: colore e luce sono i mezzi espressivi più sfruttati di questo periodo e sono ottenuti, il primo con impasti di colore a corpo e sempre più ricchi, il secondo con una stesura di intonaco granuloso anziché liscio, che accentua la luminosità del colore ed evoca la pittura ad impasto su tela.
In questo periodo, l’uso del bozzetto a disegno e del modello a colori, consentono non solo prove successive e sempre più vicine alla realizzazione definitiva ma anche una precisa sperimentazione preliminare, dato che l’affresco investe ormai spazi sempre più legati alle strutture architettoniche (archi, volte, pennacchi, cupole). Il riporto è ancora a ricalco o a spolvero e sfruttatissimo è il sistema della graticolazione prospettica per la riproduzione in scala sui soffitti e volte, descritto dal padre gesuita Andrea Pozzo ne “L arte di dipingere a fresco” (1693), unica trattazione pratica del Seicento in materia.
Intanto viene introdotta nella prassi antica un’altra importante modifica, resa possibile proprio dalle frequenti addizioni di calce alla stesura dei colori: la “granitura”. Si tratta di fatto della lavorazione che consente di “rilevare il pelo della malta”, alzando sulla superficie i singoli grani di sabbia che la compongono. Rispetto alle stesure su intonaco liscio, si ottengono effetti cromatici diversi della pittura sovrammessa, accelerando però notevolmente l’essiccazione dell’intonaco.
L affresco rimane la tecnica per eccellenza nella decorazione parietale godendo di una larghissima fortuna nell’arte settecentesca dell’intera Europa , mentre nel primo Ottocento inizia un lento ma continuo declino, legato alla scomparsa della grande pittura storica e prospettica, che coincide con l’avvento del neoclassicismo e con i tentativi di ritrovare i modi dell’antica pittura parietale ad encausto, tecnica che prevede come legante la cera a caldo.
Più tardi anche il gusto romantico-primitivistico porterà a vari tentativi di recupero che avranno varia fortuna ma scarso seguito: un esempio a Lucca è quello del pittore Michele Ridolfi che eseguì opere e restauri con la tecnica ad encausto, cui dedicò anche una trattazione teorica.
Frattanto anche i materiali sono mutati: alle calci ottenute con pietre scelte si sostituiscono prodotti industriali, spesso di minor qualità e costo; si introducono nuovi pigmenti dalle belle e preziose tonalità, ma non resistenti alla causticità dell’intonaco.
Anche il mestiere del pittore cambia: la grande tradizione della bottega cede progressivamente il passo alla formazione scolastica di Accademia, talvolta lontana dalle preoccupazioni tecnico-pratiche del mestiere e dalle lunghe stagioni passate sui ponteggi.
Tentativi di tornare alla tecnica dell’affresco vennero effettuati in Italia, dopo la stagione dell’Art Nouveau, durante il periodo fascista, ma con scarso successo perché fondati più su retorici ritorni al passato piuttosto che su effettive esigenze di ricerca di nuovi mezzi espressivi e reali conoscenze tecniche.
Il Supporto
Per eseguire un dipinto murale è necessario preparare la parete a ricevere il colore perché il muro è spesso disomogeneo per materiali e superficie e non consente una stesura fluida della pittura. Il supporto su cui viene eseguito l’affresco è quindi l’intonaco che “veste” il muro rendendone uniforme la superficie e preparandola, in tal modo, a ricevere la coloritura.
Nella tecnica tradizionale l’intonaco è fatto di malta di calce e cariche, e si distinguono due strati: l’arriccio e l’intonaco propriamente detto.
L arriccio, steso su un primo strato detto rinzaffo, è un incalcinatura ruvida, grossolana, che ha la funzione di unificare la parete e favorire l’adesione dell’intonaco; quest’ultimo, detto anche tonachino, è un impasto più fine che pareggia le asperità dell’arriccio ed è destinato a ricevere il colore. L intonaco deve essere applicato sull’arriccio preventivamente inumidito; esso deve essere ben umido e restare tale per tutto il corso del lavoro di coloritura, per cui si può applicare sul muro solo la superficie che verrà colorata durante la giornata. E così che, stendendo la pittura sull’intonaco ancora fresco, per il processo di carbonatazione, il materiale in superficie si trasforma in carbonato di calce inglobando in un solo corpo i pigmenti e divenendo una superficie compatta di consistenza marmorea e durevole nel tempo .
Le fasi
L’ esecuzione di un affresco prevede le seguenti fasi:
* preparazione dell’arriccio (primo strato d intonaco grezzo);
* esecuzione della sinopia (disegno di base);
* apposizione dell’intonaco fresco a “giornate”;
* esecuzione, sull’intonaco ancora fresco, del disegno preparatorio vero e proprio (che riprende e, a volte, corregge quello della sinopia);
* stesura dei colori a fresco sciolti in acqua;
* rifiniture (o parti della figura) a secco a tempera.
Il disegno, preparato su un cartone, veniva trasferito sull’arriccio o anche sull’intonaco, bucando con uno strumento aguzzo il contorno del disegno stesso e facendo passare poi, attraverso i fori, della polvere di nerofumo, in modo che la sua traccia comparisse sulla parete. Tale procedimento che si diffonde nella seconda metà del Trecento è detto spolvero; in precedenza la sinopia o il disegno preparatorio erano eseguiti direttamente.
Battuto lo spolvero si ripassava il disegno con un pennello intriso di terra rossa o nera, ottenendo così la sinopia; su questo disegno guida venivano applicate via via le porzioni di intonaco fresco dette “giornate di lavoro” .
Il grado di minuziosità nel preparare la sinopia varia secondo gli artisti e anche secondo le zone dell’affresco; nello strappo degli intonaci, che consente il recupero delle sinopie, si è visto come queste si differenzino nel grado di rifinitura: appena abbozzate nelle parti principali eseguite dal maestro, più rifinite e particolareggiate in quelle connesse all’esecuzione degli aiuti.
Nel Quattrocento, con la nuova esigenza di eseguire un disegno più elaborato, più finito, in modo anche da poterne affidare ad altri il riporto e talvolta la stessa esecuzione pittorica, la sinopia viene sostituita dal trasferimento del disegno mediante l’uso dello spolvero e, successivamente, del cartone.
Il disegno era eseguito su carta a grandezza uguale a quella dell’affresco; veniva perforato con punte metalliche (e, se si voleva salvarlo, si perforava anche un foglio sottostante) seguendo le linee della composizione e delle figure. Preparata la parte giornaliera di tonachino si ritagliava dallo spolvero la parte corrispondente, la si applicava sull’intonaco e poi vi si passava sopra con un sacchetto di polvere finissima di carbone in modo che questa, attraverso i fori, segnasse sull’intonaco le linee della composizione, che venivano ripassate in seguito con il pennello.
Verso la fine del secolo si diffonde l’uso del cartone rispetto allo spolvero; la traccia sull’intonaco è imposta per calco e non a puntini e, solitamente, sul cartone venivano studiati anche i colori e i contrasti chiaroscurali. L artista passava con una punta sulle figure del cartone appoggiato all’intonaco fresco, in modo che su questo restasse una lieve impronta.
Dovendo trasferire in grande un disegno preparato dall’artista, si usava il sistema della quadrettatura o rete; sul disegno e sul cartone venivano tracciati in numero uguale quadrati grandi proporzionalmente. Le linee compositive contenute in ogni quadrato del disegno venivano riportate proporzionalmente nel quadrato corrispondente del cartone costituendo una chiara traccia per ripetere la composizione nella nuova e più grande scala . Dopo l’esecuzione del disegno preparatorio e la stesura del tonachino si passava alla coloritura. A partire da Giotto la stesura del colore avviene non più per sovrapposizione ma per accostamento: si parte dalle ombre e si stendono le zone più chiare realizzando per ultime, le mezze tinte e i toni vivi; al sistema tradizionale di campeggiare i volti modellando poi le forme con “verdaccio” per le parti in ombra e con bianco per le parti in luce (sistema che, secondo il Cennini era proprio di coloro che non s intendevano d arte) si sostituisce la maniera di Giotto di costruire la forma della figura come dall’interno, definendo prima le zone d ombra a verdaccio e ripassando poi i punti luce con bianco Sangiovanni, e nel distinguere l’incarnato di base in tre diverse gradazioni di colore, dal chiaro allo scuro, per graduare il rilievo dalla luce all’ombra; con la più chiara si dipingono i rilievi del viso, con la media i mezzi e, con la più scura si va nelle zone più oscure, lasciando però che il verde terra non sia del tutto sopraffatto.
I pigmenti per l’affresco
I pigmenti utilizzati per l’affresco sono quelli in grado di resistere alla basicità della calce; per questo non tutti i colori sono utilizzabili e sono preferibili alcuni pigmenti minerali, in genere i meno alterabili .
Plinio fornisce informazioni dettagliate sui colori nel libro XXXIII e nella prima parte del XXXV della sua “Naturalis Historia”, descrivendone luoghi di estrazione, preparazione, prezzi, falsificazione. Molti di essi hanno nomi di origine geografica, provenendo da vari paesi del Mediterraneo. Plinio elenca anche i pigmenti da escludere nell’affresco, quali ad esempio il “purpurissum”, l'”indaco”, il “ceruleo”, il “melino”, l'”orpimento”, l'”appiano” e la “cerussa”, perché vengono alterati dalla calce.
All’epoca bizantina risalgono le “Compositiones ad tingenda”, un manoscritto degli inizi dell’IX secolo, ma che riporta procedimenti tardo antichi, conservato nella Biblioteca Capitolare di Lucca; molto singolare è un testo altomedioevale, “De coloribus et artibus romanorum” di Heraclius, in tre libri di cui i primi due sono scritti in esametri per mandare a memoria le ricette, mentre il terzo raccoglie esperienze di artigiani in Italia, Francia e Inghilterra ed è stato compilato in epoca posteriore.
Il “Libro dell’arte” di Cennino Cennini è l’ultimo trattato medioevale, molto importante perché riporta preparazioni in uso anche nella pittura murale dell’epoca moderna. Benché Cennino talvolta non dimostri grande conoscenza dei pigmenti, tra i colori elencati dall’autore si ricordano il “bianco di Sangiovanni” (carbonato di calcio) e la calce spenta per il bianco, ocre naturali e bruciate per il giallo e il rosso, le terre per il rosso e il verde, l’oltremare per l’azzurro, terra d ombra naturale e bruciata per i bruni. Per il nero si usava il nero d avorio o d osso o il carbone di vite. Cennini ci ricorda inoltre che, per i cieli e il manto della Vergine, si usava l’azzurro ultramarino, ricavato dal lapislazzulo, colore preziosissimo che poteva essere sostituito con la più economica azzurrite (carbonato basico di rame), che si alterava però in verde con il tempo. L autore raccomanda anche di utilizzare pennelli di setole morbide per non raspare l’intonaco e sporcare i colori.
La scelta dei colori per l’affresco veniva stabilita prima di cominciare il dipinto e faceva parte dello studio preparatorio. La distribuzione delle tinte nella composizione doveva infatti essere ben acquisita dal pittore perché, al momento della stesura sull’intonaco fresco, spesso si perde la possibilità di distinguere i toni, apparendo tutti su tonalità brune e nere e schiarendo man mano che l’affresco asciuga. Una volta scelti i pigmenti adatti per essere stesi a fresco essi venivano stemperati in acqua e si preparavano tutte le variazioni tonali dei singoli colori in vasetti separati.