Storia del Restauro
Le diverse concezioni su “restauro e conservazione” dei manufatti di interesse storico-artistico nel corso dei secoli
a cura di:Salvatore Lorusso, Maria Teresa Gentile e Fernanda Prestileo |
Premesso che con il termine “restauro” si intende indicare qualsiasi intervento rivolto a conservare la materia di cui è composto il manufatto-bene culturale, al fine di prolungare il suo ciclo di vita, in passato esso è stato variamente inteso – e diversamente attuato – a seconda delle concezioni estetiche dei diversi periodi.
La deperibilità e/o l’alterabilità-degradabilità della materia e l’interesse con cui l’uomo ha da sempre scelto i materiali con i quali eseguire le opere, nonché l’attenzione con cui esse sono state mantenute, dimostra che il concetto di conservazione e la pratica del restauro delle opere artistiche hanno origini molto remote.
Nei secoli passati le opere artistiche hanno ricevuto interventi di restauro in nome dei loro pregi estetici, fideistici o di prestigio politico: tali interventi erano diretti esclusivamente a trasmettere intatti nel tempo i suddetti valori mantenendo in buone condizioni il “significato” dell’opera e la sua “leggibilità”.
Il conferimento ad esse di un valore prettamente contenutistico ha prodotto tutta una serie di trasformazioni dell’aspetto dell’opera, della sua iconografia nel caso dei dipinti, degli stili, delle dimensioni e di quanto altro compone un’opera dal punto di vista estetico.
La più antica notizia circa un intervento di restauro risale al III sec. a.C.: il decreto di Chio del 322 a.C. fa presente l’opportunità di provvedere alla pulitura periodica di una statua, della quale non sappiamo altro (1).
Notizie dettagliate relative all’antichità sono state desunte da Plinio (Naturalis historia, I sec. a.C.) e da Vitruvio (De arch., I sec. d.C.) : siamo a conoscenza che greci e romani prestavano particolare attenzione ai materiali da impiegare per l’esecuzione delle loro opere, prediligendo, di conseguenza, prodotti di riconosciuta durabilità.
Non solo le tipologie materiche ma anche la tecnica artistica assumeva a tal fine una posizione di rilievo: a titolo di esempio, si può citare l’uso preferenziale della tecnica a fresco per i dipinti su muro, e di quella ad encausto(*) per quelli su tavola allo scopo di proteggerli dai danni dell’umidità (2).
| (*) Encausto: Tecnica pittorica che prevede l’uso della cera punica come legante. Il suo utilizzo è stato riscontrato sui dipinti romani (su tavola) del Fayum, datati fra il I e il IV sec. d.C. (**) Tecnica a Massello: Tecnica di trasporto dei dipinti murali consistente nell’asporto dell’opera insieme con il suo supporto, ossia con la porzione di muro sulla quale si trova l’immagine. Essa – utilizzata fino al XVIII sec. – a differenza di altre tecniche, permetteva di salvare anche il disegno preparatorio, ma poteva essere applicata per opere di dimensioni ridotte (2-4 M2 ) a causa del notevole peso. |
In breve dal punto di vista meramente estetico l’ opera d arte, in quanto portatrice di un “messaggio” religioso e politico, doveva mantenere inalterata la propria “leggibilità”: essa, quindi, poteva essere riprodotta come copia piuttosto che sottoposta a restauro nel caso in cui risultassero compromesse le suddette peculiarità. Quest’ultimo caso era frequente per le opere di particolare pregio, per le quali si riteneva opportuno conservare la memoria, mentre le opere di scarso valore venivano distrutte per farne materiali da riutilizzo (4).
Con il sorgere e l’ affermarsi del Cristianesimo si ebbe il fiorire della produzione iconografica del nuovo culto: i primi cristiani rappresentavano le loro immagini devozionali, che mantenevano sempre in condizioni di buona “leggibilità” attraverso i rifacimenti e le ridipinture. Ciò è stato possibile dedurlo – in quanto non esistono testimonianze al proposito – dai ritrovamenti di numerose opere palinseste, cioè rappresentazioni tra loro sovrapposte, all’interno di catacombe.
Per avere altre testimonianze di restauri dopo Vespasiano, occorre giungere al Medioevo: in questo periodo l’azione di restauro era rivolta a ristabilire l’integrità dell’opera d arte rinnovando e attualizzando l’opera secondo la concezione estetica del tempo. Tale prassi operativa dei rifacimenti e delle ridipinture produsse una stratificazione degli interventi “ricostruttivi” succedutisi nel corso del tempo, che ne ha fatto delle opere palinseste. Ciò ha posto il problema, in tempi relativamente recenti, della liceità dell’eliminazione degli strati sovrapposti allo scopo di recuperare l’immagine “originale”.
Una prassi consueta di questo tipo di interventi di manutenzione, di cui si ha notizia, è quella della pulitura dei colori e dell’oro anneriti, con calce viva, cenere e sapone sciolti nell’acqua: in seguito i materiali trattati venivano ripassati con chiara d uovo per ravvivare i colori e renderli brillanti (4).
Dall’antichità greca e romana, di cui abbiamo le più remote testimonianze, fino al XVIII sec., gli interventi, miranti a mantenere e trasmettere il “messaggio” delle opere artistiche, non mostrano di prestare attenzione alcuna – fatta eccezione per alcune opere, ritenute “intoccabili” in quanto opera di maestri riconosciuti dell’arte e quindi di “maniera” inimitabile, come nel caso dei dipinti sistini di Michelangelo – al problema del rispetto dell’epifania originale.
Si effettuano conseguentemente una serie innumerevole di “ritocchi” e rifacimenti sulla maggior parte dei manufatti giunti sino a noi. In particolare, a determinare le maggiori attenzioni da parte dei restauratori a partire dal XVI sec., sono i completamenti di opere del passato in stato lacunoso, attraverso integrazioni “mimetiche”: ciò derivava non solo dall’esigenza da parte dei fruitori di “godere” della bellezza dell’opera nella sua completezza, soprattutto da parte dei committenti-collezionisti di oggetti d antiquariato, ma anche da una necessità sentita, specialmente in epoca rinascimentale, di innescare una “gara” con gli artisti del passato e quindi di studiarli e di eguagliarli. Da ciò si comprende il valore dato al restauro quale “strumento” per conseguire il recupero dell’esteriorità dell’opera, tralasciando non solo il suo valore storico – scarsamente riconosciuto se non in senso strumentale – ma ancor più trascurando completamente gli aspetti materici afferenti all’arte.
Sarebbe tuttavia riduttivo affermare che questi erano completamente sconosciuti agli artisti e agli intenditori d arte dell’epoca poiché in particolare gli artisti, a partire dalla presa di coscienza del valore intellettualistico del loro operare, cioè a partire dall’inizio del XV sec., compresero l’importanza della conoscenza delle nozioni attinenti le tecniche e i materiali, la quale presuppone una preparazione professionale non più solamente empirica ma suffragata dallo studio teorico, per il conseguimento di un lavoro di “qualità”.
Questa rinnovata visione teorica produsse una nuova attenzione verso gli aspetti qualitativi responsabili della conservazione delle opere; d altra parte il recupero stesso dei precetti dell’arte romana, tratti in particolare dal “Trattato di Architettura” di Vitruvio (27d.C.), consentì ai suddetti di operare delle scelte in funzione qualitativa e quindi conservativa.
Fra il Quattrocento e il Cinquecento divenne frequente la pratica del restauro di integrazione: in particolare si provvedeva a completare le numerose sculture, rinvenute negli scavi archeologia dei primi del Cinquecento, nelle loro parti perdute, con nuove parti eseguite in “stile” secondo la concezione estetica classicista.
Alla valenza estetica, però, si aggiunse un interesse storico lontano, naturalmente, dal nostro rispetto per l'”istanza storica” che, come è noto, si affermerà solo con Brandi. Tale interesse consiste nel “rifare in stile” l’opera d arte, allo scopo di mantenere i caratteri propri del suo periodo di origine: si presta così attenzione alla storicità delle opere.
Passando al secolo della Controriforma – l’azione e il movimento di riforma della vita e della disciplina religiosa nella Chiesa cattolica nei sec. XVI e XVII nonché di difesa, nei confronti della Riforma protestante, della tradizione cattolica – essa condusse al restauro devozionale di dipinti e statue dedicate al culto: tale interesse si rivolse esclusivamente all’iconografia, per mezzo di tagli, adattamenti, ridipinture, etc., allo scopo di intervenire sui “contenuti”, modificandoli, per renderli compatibili alle nuove e più severe regole del culto controriformato.
Per tutto il Seicento persistette tale pratica di restauro, affiancata comunque dall’uso di rifare le opere secondo il nuovo gusto barocco.
Ma è solo a partire dal XVIII sec. che si hanno i primi cenni di una attenzione agli aspetti storici e materici caratterizzanti le opere; si levano le prime isolate concezioni di un restauro rispettoso per l’aspetto in cui si presenta l’opera, quindi propensi ad un non-intervento: tale concezione produce, indirettamente, una maggiore attenzione nei confronti dell’autenticità della materia di cui si compone l’arte.
Nella seconda metà del secolo si delinea, per la prima volta, l’interesse per una “normativa” delle procedure attinenti la conservazione e il restauro e, quindi, si ha un più cosciente controllo dell’operato: in particolare ciò si attua nei restauri diretti da Pietro Edwards a Venezia (4).
A partire dall’Ottocento la disputa sui metodi e sulle concezioni del restauro si fa accesissima per l’affermarsi di concezioni teoriche a volte opposte. All’origine di un così ampio dibattito si pone il grandissimo numero di restauri monumentali operati in Francia durante il periodo Romantico. Questo nuovo interesse sorto intorno al restauro è determinato dalla volontà di recuperare le proprie origini culturali “nazionali”, ravvisate nelle vestigia di epoca medievale.
Tale impostazione di “recupero” del passato ha il suo più conosciuto assertore in E. Viollet-le-Duc, il quale teorizza e pratica il restauro di ripristino o stilistico degli stili architettonici del medioevo. Una controparte è rappresentata dall’inglese J.Ruskin, il quale ritiene il consolidamento l’unico intervento valido sui monumenti, insieme alla tutela costante di essi, che ne scongiuri gli interventi diretti: egli pone particolare riguardo alla conservazione delle opere molto più che non il suo antagonista.
Una posizione “rivoluzionaria” è rappresentata negli stessi anni dall’italiano C. Boito, il quale, in veste di teorico (come lo era Ruskin, ma non LeDuc il quale era un architetto restauratore) conferì importanza al valore “documentario” delle opere e, quindi, al rispetto dello stato in cui esse giungono ritenendo importante limitare al minimo i rifacimenti, i quali, inoltre, devono essere sempre riconoscibili.
Le sue idee confluirono nel documento sul restauro redatto dagli Architetti e Ingegneri nel 1884 ponendo le basi per il futuro restauro scientifico.
Da Boito e dalla sua concezione “moderna” discende il restauro storico-filologico teorizzato, a distanza di pochi decenni, da L. Beltrami.
Tali concezioni rappresentano i prodromi del restauro critico, in seguito sancito da Brandi, che vennero affermate nella Carta del Restauro italiana del 1931(5).
Il rispetto per l’opera e per il suo stato di conservazione si è affermato in tempi recenti con il mutamento della concezione del restauro, verificatosi con l’avvenuto riconoscimento dell’importanza della valutazione “critica” dell’opera.
Essa si afferma gradualmente, a partire dalla definizione del restauro data da C. Brandi nella sua “Teoria del Restauro” nel 1960. Egli definisce il restauro come il “momento metodologico del riconoscimento dell’opera nella sua polarità storicoestetica”. Tale “riconoscimento” non è possibile in presenza di manufatti alterati a causa di restauri impropri: ne consegue che la suddetta impostazione concettuale è essenziale per la conservazione dell’opera (6).
In quegli stessi anni si ha il delineamento e l’affermazione del concetto di “conservazione”, a partire dalla definizione di “bene culturale” quale “testimonianza materiale avente valore di civiltà”, conferito dalla “Commissioned indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, artistico, archeologico e del paesaggio” nel 1967: questa ha prodotto il superamento di una visione meramente estetica degli “oggetti” d arte ed ha attribuito loro il valore di testimonianza delle culture del passato superando la valenza discriminatoria insita nel concetto di “belle arti”.
Accanto al valore di “civiltà”, si pone per la prima volta in risalto quello altrettanto caratterizzante concernente l’aspetto “materiale” di tali beni: questa rinnovata visione ha contribuito alla formazione della moderna definizione di conservazione come insieme di “atti”, diretti ed indiretti, volti al mantenimento della “funzionalità” di un bene, il che equivale a dire fruibilità di esso.
Tale finalità è conseguita attraverso interventi relativi alla materia, al suo “ciclo di vita”, in quanto da essa dipende la “trasmissibilità” dei valori di “civiltà” che corrisponde alla finalità stessa dell’intervento conservativo.
La conservazione è oggi avvertita come una esigenza prioritaria: l’impegno culturale e tecnico garantisce la “vita” stessa del bene. Essa non può prescindere dal rispetto dell'”istanza estetica” e di quella “storica”: ciò implica, conseguentemente, la tutela del contesto storico – ambientale che ha “prodotto” il bene e ne ha assicurato la trasmissione fino a noi.
Pertanto appare evidente l’importanza di conoscere il bene nei suoi molteplici aspetti storico – estetici, i quali conferiscono al bene il carattere determinante di “unicità” e “irriproducibilità”.
Si fa particolare riferimento allo studio dell’ambiente e delle relazioni che intercorrono tra quest’ultimo e il manufatto (7-11), secondo il concetto di “buon governo” di definizione arganiana.
Inoltre occorre dire che se il restauro è stato demandato fino all’Ottocento agli artisti stessi, i quali risolvevano empiricamente i problemi attinenti il danno presentato dalle opere, successivamente si è andata affermando, sempre di più, l’importanza di una preparazione adeguata alla specifica conoscenza dei materiali costituenti i beni. Ne deriva che, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, si sono applicate le indagini sperimentali e le moderne tecnologie, al fine di conseguire delle conoscenze approfondite che possano guidare il lavoro del conservatore e quello del restauratore (12-13).
Bibliografia
(1)(2) M. Cagiano de Azevedo, Voce “Restauro” in Enciclopedia dell’Arte antica, VI, 655-657
(3) Plinio, Naturalis historia, XVI, 214
(4) A. Conti, Storia del restauro e della conservazione delle Opere d arte, Electa, Milano, 1988
(5) L. Vlad Borrelli, Voce “Restauro” in Enciclopedia dell’Arte antica, VI, 654-655
(6) C. Brandi, Storia del restauro, Ed. Einaudi, Torino, 1977; C. Brandi, Voce “Restauro” in Enciclopedia Universale dell’Arte, XI, 323-332
(7) S. Lorusso, M. Laurenzi Tabasso, M. Marabelli, P. Innocenti, Beni Culturali,ambiente e controllo di qualità, in Accademie e Biblioteche d Italia, LXI, 2 (1993) (8) S. Lorusso, M. Marabelli, G. Viviano, G. Ziemaki, Il degrado dei materiali storico – artistici esposti all’aperto: aspetti tecnici, legislativi e ambientali, ECO il Notiziario dell’Ecologia, 2, 18, (1993)
(9) S. Lorusso, B. Schippa, Le metodologie scientifiche per lo studio dei beni culturali, Ed. Bulzoni, Roma, 1992
(10) S. Lorusso, M. Marabelli, G. Viviano, La contaminazione ambientale ed ildegrado dei materiali di interesse storicoartistico, Ed. Bulzoni, Roma, 1995
(11) S. Lorusso, L ambiente di conservazione dei beni culturali, Ed. Pitagora, Bologna, 2000
(12) S. Lorusso, La scienza e la tecnica per la conservazione dei beni culturali, SCIENZA & TECNICA, 311-312,1-5 (1996)
(13) S. Lorusso, E Prestileo, L. Gregori, M. E. Pifferi, Tecnica, tecnologia,scienza nel settore dei beni culturali, SCIENZA & TECNICA, 340, (1999).
La Rivista Elettronica di Gemini Europa “Il Caos Management” N°5 Luglio- Agosto 2004 – www.caosmanagement.it
Interessante
Grazie per l’apprezzamento.