Arte e RestauroLa Carta

Breve storia della carta antica

Fonte: Lucia Musetti, restauratrice in Pontremoli

La storia della fabbricazione dei supporti scrittori è affascinante quanto articolata e segue di pari passo la crescente necessità dell’uomo di formalizzare le proprie idee.
I primi supporti a essere utilizzati a questo scopo furono le pareti rocciose delle caverne e le ossa. In seguito alla scoperta di materiali più idonei e alla crescente capacità dell’uomo di lavorarli, la tecnica dell’incisione si spostò su lastre metalliche, tavolette di terracotta e di legno incerato. La necessità di utilizzare supporti più leggeri e di facile reperibilità, favorì il largo uso del papiro (soprattutto presso egiziani, greci e romani), la cui storia cominciò circa 5000 anni fa. Di origine animale è invece la pergamena, del cui utilizzo abbiamo notizie a partire dal II secolo a.C., quando si cominciò a lavorarla separatamente dal cuoio. In Europa questo supporto, economicamente prezioso ma anche molto longevo, ebbe il predominio assoluto in campo librario fino al XII secolo, quando si cominciò a produrre in quantità, prima in Spagna, poi in Italia, un materiale più concorrenziale. Si trattava della carta, le cui origini si fanno risalire in Cina attorno al 100 d. C..

La tecnica di lavorazione di questo supporto consisteva originariamente nell’utilizzare ritagli di tessuto, riducendoli in pasta e mescolandoli con acqua tramite battitura. A questo punto la pasta acquosa ottenuta poteva essere filtrata attraverso stuoie di bambù così da ricavarne fogli che venivano posti ad asciugare al sole. Col tempo si cominciarono ad utilizzare fibre provenienti direttamente da vegetali, quali il gelso. La scoperta della carta e il suo uso si diffusero rapidamente in tutta la Cina finché nel 750 d.C., attraverso Samarcanda, giunsero nel mondo islamico (Bagdad, Damasco) per poi diffondersi anche in Egitto, dove le acque del Nilo e la coltivazione del lino offrivano condizioni favorevoli. Nel 1100 il viaggio della carta toccò Palermo e Fez per arrivare poi in Spagna e, successivamente, in tutta Europa.

Quando in Italia nasce la prima cartiera (Fabriano, 1276), il processo manifatturiero della carta aveva già subito parecchie innovazioni, fra cui la sostituzione del traliccio di bambù con un reticolo di fili in ottone e l’utilizzo di nuovi impasti. Dovendosi avvicinare al restauro della carta risulta fondamentale conoscerne la storia dello sviluppo della manifattura, poiché ci consente di ricavarne informazione preziose riguardo alla datazione del manufatto e all’origine del degrado.

La materia prima utilizzata era essenzialmente costituita da stracci (lino, canapa e cotone), che venivano scelti a seconda della loro natura, qualità e colore prima di essere trattati con cenere di abete che ne favoriva la pulitura e lo sbiancamento. Dopo il lavaggio in acqua corrente si lasciavano gli stracci a fermentare in grandi vasche, in cui veniva aggiunta calce (idrossido di calcio) che ammorbidiva i tessuti e facilitava la successiva sfibratura. Questa veniva ottenuta meccanicamente sotto l’azione di martelli e magli in legno rinforzati da chiodi appuntiti. La pasta veniva quindi passata nella forma dove le fibre poi si disponevano per dare origine al foglio di carta, che veniva poi pressato, disteso ad asciugare e infine collato con gelatine di origine animale (solitamente pesce e cascami di macelleria), diversamente dalla manifattura orientale che prevedeva l’utilizzo di amido. La funzione di quest’ultima operazione era la stessa: rendere la superficie del foglio meno assorbente e quindi più adatta a ricevere il pigmento di scrittura.

Il processo di fabbricazione qui citato non subì grandi innovazioni fino alla fine del XII secolo e permise di ottenere supporti qualitativamente validi e dotati di caratteristiche chimico fisiche atte alla conservazione. Infatti, le carte così ottenute erano consistenti e flessibili perché costituite da fibre lunghe di pura cellulosa e resistenti al degrado chimico, in quanto le sostanze aggiunte durante la lavorazione conferivano loro una “riserva alcalina”, ovvero un pH basico.

La crescente richiesta di carta, legata anche alla diffusione del libro stampato, portò al graduale peggioramento della qualità, sia a causa dell’utilizzo di materie prime più scadenti, sia perché i processi di manifattura vennero accelerati per abbreviare i tempi di produzione.
Per comprendere al meglio le cause e le conseguenze che tali innovazioni apportarono alla carta quale prodotto finale della lavorazione, è utile prenderle in esame singolarmente.
La materia prima fibrosa, costituita da stracci, rendeva costosa la produzione della carta e poteva essere di difficile reperibilità; perciò col tempo la si sostituì con materiali fibrosi provenienti direttamente dai vegetali (paglia, corteccia), fino ad arrivare all’impiego delle paste a base di fibre legnose. Queste erano sicuramente più economiche, ma presentavano il problema della presenza delle sostanze incrostanti, quali lignine e emicellulose che rendevano la carta meno pura e maggiormente sensibile ai fattori di deterioramento. Per utilizzare tali materie prime fu necessario l’impiego di nuovi processi manifatturieri; infatti, verso la metà del XIX secolo venne messa a punto la lavorazione della pasta trattata con soda caustica, che si evolverà, qualche decennio dopo, in quella a base di “pasta chimica” trattata al solfito.

La collatura a base di gelatine animali venne integrata, a partire dal XVII secolo, con allume (solfato doppio di alluminio e potassio), un sale utilizzato come induritore ed essicatore, ma portatore di uno dei fattori che più negativamente incidono sul degrado chimico della carta: l’acidità. Nel 1807 comparve un nuovo metodo di collatura, che prevedeva l’uso della colofonia, una resina che veniva addizionata con soda e fatta reagire direttamente “in pasta”. Con l’aggiunta di allume la colofonia precipitava sulle fibre sostituendo così la collatura successiva alla formazione del foglio. Questo processo genera però acido solforico e la sua affermazione nella filiera produttiva della carta, segnò pesantemente in negativo la qualità del prodotto finale.

Il processo di sfibratura delle materie prime ebbe una svolta nel 1680, quando apparve in cartiera la “pila olandese”, una macchina costituita da una vasca in cui appositi coltelli metallici lavoravano l’impasto. Si ottenne un notevole vantaggio in termini di tempi e costi di lavorazione, ma la pasta così ottenuta era costituita da fibre spezzate, molto più corte rispetto a quelle derivate dalla tradizionale lavorazione coi martelli.

Il processo produttivo ha proseguito la sua evoluzione attraverso le scoperte chimiche, con l’uso di paste trattate per raffinare materie prime impure, ma sempre più economiche, e l’impiego di macchine sempre più efficienti per accelerare la produzione (macchine “continue”, ecc.)

In questa sede ci è sembrato più opportuno approfondire il tema della manifattura della carta antica piuttosto che non di quella moderna, poiché prenderemo in esame trattamenti di restauro eseguiti di norma su documenti cartacei la cui datazione spazia tra il 1150 e il 1850.

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